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La quarta edizione della Conferenza sulla riduzione del danno dei paesi latini, che si aprirà fra pochi giorni a Milano, riveste un significato particolare. In primo luogo per noi italiani, che assistiamo increduli al consolidamento (al posto della demolizione) dell’approccio di tolleranza zero sancito dalla legge Fini Giovanardi. Così, mentre il sospirato testo governativo di riforma non riesce ad approdare al tavolo dei ministri, il neo varato pacchetto sicurezza rialza la posta della famigerata legge antidroga, promettendo il carcere sicuro per i piccoli pesci, anzi per i piccolissimi (vedi Francesco Maisto, Fuoriluogo, ottobre ’07); e meno male che la proposta Boato ha iniziato l’iter in commissione, tanto per salvare la decenza. La speranza è che l’assise di Milano dia un segnale dal basso decisivo, per scuotere la politica e rimotivare il movimento.
Tuttavia, la seria impasse di casa nostra non origina esclusivamente, né si esaurisce, nel contesto italiano. Più alla radice, guardando al panorama internazionale, è bene chiedersi con coraggio se la riduzione del danno conservi ancora la sua “spinta propulsiva” di modello politico alternativo alla zero tolerance. L’interrogativo è d’obbligo, guardando alla parabola che dalla Carta di Francoforte, del 1990, conduce ai proclami anti-lavavetri dei nostri sindaci e al già citato pacchetto sicurezza del governo in questo volgere del 2007. Quasi un ventennio fa, la municipalità di Francoforte e molte altre città del Nord Europa, dichiaravano il fallimento della “guerra alla droga”, denunciando l’impossibilità di gestire i conflitti urbani con l’arma della repressione; e cercavano in alternativa di “gettare ponti” fra la cittadinanza e i consumatori investendo sul sociale e sulla tutela della salute pubblica. Oggi all’opposto i sindaci nostrani, con l’entusiasmo dei convertiti, abbracciano il credo del “pugno duro”, decretando l’esilio di lavavetri e prostitute, di drogati e accattoni: parole come “convivenza” e “mediazione” (fra soggetti, gruppi, condizioni e stili di vita differenti) sono anch’esse messe al bando dal linguaggio di amministratori e governanti, che si affidano alla lunga mano della legge penale per “ripulire dal degrado” piazze e marciapiedi.
Questa premessa può suonare strana a qualcuno, forse. Si dirà che la riduzione del danno non ha mai avuto (né dovrebbe avere) l’ambizione di rappresentare un modello di governo complessivo della questione droghe. Né tanto meno avrebbe a che fare con la pluralità dei conflitti in una società moderna (immigrazione, povertà etc.), oltre la droga. C’è una parte di verità in questo. Sin dall’inizio la partita vera si è giocata sul modo di intendere la riduzione del danno: fra chi la voleva e la vedeva solo come una articolazione della risposta sociosanitaria, per aggiungere (nella maniera più indolore possibile) nuovi interventi a quelli tradizionali di prevenzione/cura/riabilitazione; e chi la propugnava come modello di riforma della politica delle droghe, per uscire dal tunnel del just say no degli anni ottanta. Molti degli slogan di lancio della riduzione del danno riecheggiano la prima posizione: come il leit motiv “Contro la droga, cura la vita” della 2ª Conferenza governativa sulle tossicodipendenze, che cercava di conciliare la riprovazione del consumo con la presa in carico di chi mette in atto il comportamento riprovato. Ad onor del vero, la controversia si era già manifestata alla Conferenza internazionale sulla riduzione del danno di Firenze, nel 1995, quando era risuonato l’appello ad accantonare come “non pertinenti alla riduzione del danno” i temi di una nuova regolazione della canapa e più in generale dell’“alleggerimento penale”. Alla fine la lettura ridimensionata della riduzione del danno ha prevalso, quanto meno fra i politici: il che dà conto, almeno in parte, della fallita depenalizzazione del consumo personale, promessa alla conferenza di Napoli e mai realizzata dall’allora centro sinistra. Perciò in Italia la riduzione del danno non è mai stata del tutto “sdoganata” e la politica, anche a sinistra, è rimasta priva di riferimenti per una vera riforma (ancorché moderata) della politica sulle droghe.
La mancata abrogazione della legge Fini Giovanardi ha radici lontane, come si vede, così come la confusione di messaggi da parte di ministri e di ministre attuali, fra inni al “consumo zero” e ai test antidroga nelle scuole, e goffe aperture alla cosiddetta “distribuzione controllata” di eroina ai tossici, presentata in alternativa (sic!) alle “stanze del consumo”.
Sarebbe il caso di fare un passo indietro, per prendere la rincorsa e farne due avanti: guardando allo spirito della Carta di Francoforte, ma anche a molti dei suoi enunciati programmatici, mai attuati in Italia: dalla modulazione della risposta penale (“da ridurre al minimo necessario”), alla tutela sanitaria (pill testing, sperimentazione di trattamenti con eroina), all’azione sociale (incremento del welfare, sviluppo della bassa soglia con le “stanze del consumo”).
C’è dell’altro. Il panorama dei consumi è nel frattempo profondamente cambiato e appare sempre più chiaro che il consumo dipendente copre solo una fetta limitata dell’uso di droghe illegali. Il fatto non è sorprendente, guardando all’alcol; ma è appunto questo parallelismo fra droghe legali e illegali a risultare indigesto perché inficia nel profondo la cultura della proibizione. Cambia radicalmente il modo di guardare alle droghe: il consumo è un comportamento a rischio che solo in un numero limitato di casi si tramuta in danno. Non solo l’attenzione si sposta dalle sostanze al contesto (più o meno rischioso) del consumo; cambia anche l’obiettivo primario delle politiche pubbliche, che diventa il contenimento dei rischi, per l’appunto, in luogo dell’eliminazione del consumo. Siamo ben lontani dall’idea “ausiliaria” della riduzione del danno rispetto agli interventi tradizionali, per avviare alla rete dei servizi i tossici più gravi.
L’innovazione teorica è stata presente fin dall’inizio nel dibattito internazionale. Ne fa fede il documento redatto nel 1994 da esperti di diversi paesi del mondo, che riproponiamo in queste stesse pagine: «…l’ipotesi sottesa è che sia meglio per la società mirare a ridurre i danni e i rischi del consumo, anziché votarsi completamente a liberare la gente dalla droga». È una chiara allusione alla “normalizzazione” delle droghe illegali. Le implicazioni politiche sono evidenti, e si spiegano le resistenze ad assumere il nuovo paradigma. Anche per questa via ha prevalso la visione “ancillare” delle pratiche di riduzione del danno, con un mutamento della rappresentazione sociale del consumatore che rimane nell’ambito del politicamente corretto: il modello “morale” ha ceduto il passo a quello “medico”, l’immagine del consumatore come deviante da punire è stata sostituita da quella del tossicodipendente come malato da curare. Il venire a patti col consumo è presentato come l’estrema ratio di fronte alla “miseria” del tossico.
Chi non ricorda lo slogan “non si può curare un tossicodipendente morto?”. Il suo successo negli anni ‘90 testimonia la capacità di penetrazione del modello “malattia”, che ha certo svolto una funzione storica di “prima acculturazione” sulle droghe, come già avvenuto per altri fenomeni di difficile accettazione sociale sulla scia del ben noto percorso di “medicalizzazione della devianza”. Oggi però il modello patologico risulta inadeguato rispetto ai nuovi consumi, e non offre una sponda valida a contrastare la controffensiva dell’approccio “morale” e repressivo.
La riduzione del danno è ad un bivio. La aspetta un ritorno al futuro, oppure è condannata alla decadenza.