A Marghera un progetto per risanare il territorio Fu un signore che si chiamava Dupont ad esercitare le pressioni lobbistiche che portarono gli Stati Uniti d’America a varare nel 1937 il “Marijuana Act”, primo passo di una legislazione prima penalizzante, poi apertamente proibizionista in materia di coltivazione e utilizzo della canapa. Dupont non era un fanatico muccioliano, ma un grande industriale della chimica, con forti interessi – condivisi col magnate Hearst – anche nella produzione di cellulosa per la carta. Il suo obbiettivo era mettere “fuori mercato” la canapa sia come fibra tessile (da sostituire con le fibre sintetiche derivate dagli idrocarburi), sia come materia prima per la carta. Sappiamo come è andata a finire: oggi la canapa è una pianta demonizzata e criminalizzata, mentre la multinazionale che porta il nome di Dupont, dopo aver cosparso il mondo coi suoi velenosissimi prodotti, è una delle quattro “Signore della manipolazione genetica”. Il secolo che si sta per chiudere sarà ricordato dai posteri anche come quello segnato dalle catastrofi ecologiche, provocate dalla chimica pesante. Nei canali industriali che collegano il polo produttivo di Porto Marghera con la laguna di Venezia si è accumulato nel corso degli ultimi cinquant’anni un quantitativo di diossine pari a quello depositatosi sulla terra per merito nelle attività umane nell’arco dei precedenti cinquemila anni. Ma proprio a Marghera per la canapa si presenta l’occasione di una sorta di “nemesi storica”, di rivincita a posteriori nei confronti degli interessi che determinarono la sua messa fuorilegge. Quest’occasione è fornita dalla crescente attenzione nel mondo scientifico e industriale nei confronti della bio-depurazione, ovvero dell’utilizzo di sistemi naturali per la decontaminazione di acque e suoli inquinati. Un particolare settore di sviluppo di queste tecniche è rappresentato dalla phytoremediation , cioè dall’utilizzo di piante particolarmente adatte e resistenti, in grado di “succhiare” dai terreni proprio le sostanze più nocive e tossiche che lì siano state disperse. Tra i vegetali più indicati per questo tipo di interventi ci sono i pioppi, i girasoli e – udite, udite – la canapa in tutte le sue varietà. Su questo piano sperimentale esistono già autorevoli studi e alcuni significativi precedenti di applicazione pratica. Dal 1993 nella zona interessata dagli effetti più devastanti del disastro nucleare di Chernobyl, due imprese statunitensi (la Consolidated Growers and Processors inc. e la Phytotech di Monterrey) insieme all’Istituto per le Fibre Vegetali dell’Ucraina stanno conducendo coltivazioni di canapa con l’obbiettivo di estrarre dal terreno e dalla falda acquifera piombo, uranio, cesio 137 e stronzio 90, ovvero radionuclidi di metalli pesanti. Dal 1994, in Polonia, l’Istituto per le Fibre Naturali dell’Università di Poznan sta testando sotto la guida del professor Baraniecki l’uso della canapa, a fianco di altre piante industriali, per il risanamento dei terreni inquinati dai metalli pesanti residuati dal ciclo produttivo della metallurgia. Anche qui i risultati dei primi cicli di coltivazione sono sorprendentemente positivi. Da parte sua, l’università di Wuppertal sta studiando in vitro gli effetti della canapa su una più vasta gamma di inquinanti chimici. Ci sono insomma tutte le condizioni affinché quella che poteva, in un primo tempo, apparire come una simpatica boutade, una provocazione massmediatica, si trasformi invece in una vera sfida. In Ottobre abbiamo infatti presentato al Parco scientifico tecnologico VEGA di Venezia – Marghera una proposta che ha fatto discutere, in città e fuori. Si tratterebbe di pensare, nel quadro delle bonifiche delle aree industriali contaminate, previste dall’Accordo di programma sulla chimica, alla concreta sperimentazione, su uno – due ettari di terreno nella zona di insediamento del primo Petrolchimico in via di smantellamento, di una prima piantagione di canapa, in maniera da verificare le sue proprietà. Almeno due anni di coltivazione, precedute e seguite dalle opportune analisi e carotaggi, sarebbero necessari per verificare quali e quante sostanze vengano estratte dai terreni e quali siano le possibili destinazioni delle piante una volta utilizzate. L’area in oggetto è già stata acquisita dal Comune di Venezia, questa Amministrazione e l’assessorato all’Ambiente della Provincia hanno già manifestato la loro disponibilità, così come hanno iniziato a farsi avanti quei soggetti del mondo scientifico e imprenditoriale la cui collaborazione è indispensabile alla riuscita dell’esperimento. Non sembra perciò impossibile trasformare in realtà il paradosso per cui un’innocua pianta, ingiustamente criminalizzata, può oggi servire a liberare ambiente e territorio da veleni, questi invece tutti legali, che hanno direttamente o indirettamente provocato la morte di centinaia di persone.
*Consigliere comunale Verde di Venezia