Mi si chiede un commento alle pagine della Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze per il 2004, nella parte dedicata ai trattamenti dell’utenza residenziali, semiresidenziali e ambulatoriali. Il compito non è tra i più agevoli in quanto il materiale prodotto nella relazione appare particolarmente povero e totalmente disaggregato nella elaborazione dei (pochi) dati presentati. Ma prima ancora di entrare nel vivo di tale lettura mi sia permessa una considerazione di fondo: il sistema di rilevazione rispetto alle strutture del privato sociale appare, ormai, di ben poca utilità per riflettere sulla evoluzione delle opzioni di cura rispetto alla offerta del privato sociale. La tipologia classica in cui veniva infatti suddivisa l’offerta del privato sociale (residenziale, semi-residenziale e ambulatoriale) non è assolutamente in grado di rappresentare la complessità degli interventi che nel corso di questi dieci anni si sono strutturati e diversificati venendo a ricomprendere anche i servizi a bassa soglia tesi più a dare una risposta immediata ai bisogni dei consumatori che non a impostare un percorso di affrancamento dalle sostanze e di reale cambiamento. I dati della relazione, là dove ci riportano numeri di utenti sottoposti a regime residenziale, non sono assolutamente in grado di distinguere i percorsi comunitari classici dalle più brevi disintossicazioni o dagli ancora più brevi pernottamenti dovuti alla grave marginalità sociale prima ancora che a problematiche di dipendenza. Va detto, per onestà intellettuale, che il problema della rilevazione dei dati secondo una tripartizione ormai vecchia, è un problema che in Italia ci trasciniamo da almeno dieci anni, ovvero da quando le comunità terapeutiche hanno avviato la diversificazione dei programmi degli interventi. Detto questo, l’analisi dei dati della relazione, ci induce ad alcune riflessioni: i numeri offerti da S. Patrignano, dalla Comunità Incontro e dalle strutture federate nella Fict, ci dicono ben poco rispetto al tessuto umano delle persone che scelgono percorsi residenziali e semi residenziali e soprattutto appaiono non decodificabili e leggibili rispetto alle sostanze d’abuso primarie e secondarie. Un esempio per tutti: nel grafico dedotto dai dati di S. Patrignano (che pare essere l’unica Comunità al mondo in cui i dipendenti da cannabinoidi superano quelli da eroina) che si riferisce alle sostanze d’abuso, non risulta chiaro l’intreccio tra abusi primari e secondari e, in termini strettamente trattamentali, risulta ostico capire se vi sono sostanziali differenze. Tale confusione credo non sia casuale: anche nei dati prodotti dal Parlamento italiano il ragionamento di base che si vuol far passare è legato alla demonizzazione del consumo di qualsiasi sostanza legale o illegale e non ragionato su profili tossicomanici che si riferiscono a tipologie e modalità di consumo e di abuso differenti. Analoga considerazione si può fare in merito agli altri grafici riportati, alle elaborazioni di dati sulle condizioni di svantaggio o di istruzione e sul pressappochismo con cui viene trattato il tema “terapia” all’interno di questo capitolo. D’altra parte, la superficialità terminologica con cui questa parte di relazione tratta l’argomento, si evince anche da alcuni passaggi in cui lo strumento della terapia di gruppo è intesa, citiamo testualmente, come «coinvolgimento nel lavoro, nello sport ed in altre attività ludico-ricreative». Non si può, inoltre, non sottolineare il fatto che la stessa scelta delle Comunità che hanno offerto i dati, è una scelta di strutture che nella maggior parte dei casi non possono essere considerate terapeutiche. In tale logica non stupisce che le stesse Comunità Incontro, luoghi in cui si teorizza l’inutilità di profili professionali nella cura delle dipendenze, trattino il 9% di soggetti affetti da disturbi psichiatrici associati a dipendenza da sostanze. Stupisce, al contrario che vi siano servizi pubblici che si ostinano ad inviare soggetti multiproblematici in strutture dove il trattamento si declina esclusivamente in termini di ergoterapia. È la parziale conferma di come sia necessaria una politica di rigore e di differenziazione vera tra Comunità terapeutiche e Comunità di vita, e di come nella pubblicazione principale della Relazione al Parlamento, non ci si possa permettere una tale genericità di affermazioni spacciandola per contributo scientifico. Questo capitolo della relazione indica la caduta verticale di un pensiero sociale sulle dipendenze e, al tempo stesso, l’incapacità di monitorare e avviare una seria riflessione sulle buone pratiche delle comunità terapeutiche e sulle prospettive future. Non serve neppure a comprendere una evoluzione del fenomeno dipendenze che sempre più, in merito all’utenza in carico alle comunità, sembra assumere le connotazioni di utenza antropologicamente distante da quella che conoscevamo. Ci si può solo augurare che in Europa questa relazione non venga letta.