Basta parlare di legalizzazione della cannabis e subito si odono latrati e strepitii. La fondatezza delle acquisizioni di Ivan Pavlov in materia di riflessi condizionati questa volta si è dimostrata in quel di Como. Benedetto Scaglione, provveditore agli studi, si è azzardato a dire che di fronte al problema droga andrebbe fatto «qualcosa in più del mandare la polizia fuori dalle scuole» e a suggerire che le droghe leggere «andrebbero vendute in farmacia sotto stretta sorveglianza e con limiti ben precisi».
Apriti cielo! I primi attacchi sono venuti dal sindaco e da politici locali, seguiti a ruota da Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega alle tossicodipendenze, già noto per aver legato il suo nome all’attuale legislazione in materia, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. L’ultimo Rapporto dell’Osservatorio europeo certifica che l’Italia è tra i paesi dove più alto è il consumo di cocaina (la usa il 3,2% dei giovani tra i 15 e i 34 anni) e, assieme alla Spagna, il primo per quello di cannabis (l’11,2% della popolazione tra i 15 e i 64 anni). E, in effetti, basta passare in corso Como a Milano o in una qualsiasi piazza di periferia, nelle discoteche o in certi locali del Nord, del Centro o del Sud d’Italia per poter acquistare senza problemi una delle tante sostanze illegali. Una parte rilevante della florida economia mafiosa si regge su questo segmento del mercato criminale. Un segmento che si vuole preservare, a ogni costo. A prezzo di uno sconquasso del sistema giudiziario e penitenziario, di morti, malattie, infezioni, degrado sociale.
Ma questo, evidentemente, a Giovanardi non risulta. O non interessa. Lui preferisce abbaiare alla luna del luogo comune e lanciare consueti proclami sui «danni cerebrali provocati dalle droghe». Come se quelle attualmente legali, alcool in testa, non fossero comprovatamente quelle in assoluto più tossiche e letali. Eppure se ne continua a consentire e anzi a incentivare la vendita in ogni autogrill, con un conto di vittime infinitamente superiore. Ma chiedere coerenza e buonsenso ai paladini dell’oscurantismo è manifestamente una missione impossibile.
Proibito capire, titolava uno dei libri del nostro compianto Giancarlo Arnao. Ora è proibito non solo sperimentare strade nuove rispetto al plateale fallimento delle politiche sin qui seguite, ma anche semplicemente provare a discuterne. Che si tratti di cannabis, stanze del consumo o riduzione del danno.
Ciò non dipende solo dal fatto che oggi vanno per la maggiore (e sono al governo) le droghe nocive della propaganda e dell’ideologia. Non è solo questo. La proibizione, infatti, è anche un redditizio business. Per le mafie, anzitutto. Ma pure per quegli apparati di controllo e rieducazione forzosa che dell’illusione repressiva e di certe metodologie hanno fatto la loro bandiera. Un marchio di fabbrica che ora si cerca di fare operare in regime di monopolio politicamente assistito. Come a Milano, dove, secondo le direttive del Comune, per poter accedere ai bandi per i progetti di riabilitazione e assistenza, le associazioni e comunità dovranno lavorare «in affiancamento alle forze dell’ordine» e in adesione al “modello San Patrignano”.
Viene in mente l’orwelliano Ministero della Verità, sulla cui sede si potevano leggere gli slogan programmatici: La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza. Allo stesso modo, il Popolo della Libertà ci ripete instancabile nella sua orrida neolingua: punire è educare, perseguitare è salvare