Tempo di lettura: 3 minuti

Tre anni di interventi: i progetti triennali che passeranno al vaglio delle Regioni per essere approvati e finanziati sul fondo nazionale antidroga impegneranno operatori, servizi ed enti locali ben oltre quella “sperimentalità” un po’ provvisoria che ha caratterizzato molti dei progetti annuali del passato. I riflettori sono puntati sulle cosiddette “nuove droghe”, ed è lecito aspettarsi investimenti ed attenzione su questo terreno. I mass media hanno ripetutamente creato un clima di allarme, enfatizzando e distorcendo gli scarni dati scientifici sui rischi correlati. Di contro, anche in Italia si sono moltiplicati gli interventi di prevenzione e riduzione del danno mirati al popolo della notte, creando un tessuto ricco di saperi, esperienze, conoscenza del fenomeno e creatività operativa. Sui “nuovi” consumi, allarmismo e pragmatismo sembrano alternarsi un po’ caoticamente, e non solo sulle pagine dei giornali. “Pensando alla nuova tornata di progetti, qualche perplessità c’è” dice Edoardo Polidori, responsabile del Sert di Faenza, tra gli ideatori del progetto romagnolo (tuttora bloccato dalle forze dell’ordine) che includeva l’analisi chimica in tempo reale delle pastiglie di ecstasy. “Alcuni servizi – spiega – sembrano voler sostituire l’impegno su eroina e cocaina dedicandosi alle nuove droghe, non considerando che queste hanno margini di pericolosità ridotti. Si continua a ripetere che sono consumi diversi, ma in realtà anche questo consumo è visto come patologico”. Il tema della pericolosità delle nuove sostanze agita il dibattito italiano ed internazionale, ma una cosa appare certa, agli operatori più attenti: poco o nulla del bagaglio metodologico legato alle tradizionali dipendenze può essere utilizzato nel rapporto con questi consumatori. “I nuovi consumi fanno parte della normalità, non appartengono a territori marginali dal punto di vista sociale” dice Claudio Cippitelli, responsabile delle attività di strada e di discoteca del progetto Mosaico del Comune di Roma. “A questi consumi – prosegue – si coniugano molte culture diverse. Non è la sostanza in sé che produce la sua cultura, c’è una ricerca continua e i cambiamenti degli stili di consumo e divertimento sono velocissimi”. Anche Fabrizia Bagozzi, che cura i progetti su ecstasy e dintorni per il gruppo Abele, insiste sul fatto che “i ragazzi dell’ecstasy sono ragazzi normali, che studiano, lavorano, anche tanto, come quelli del nord est. Noi lavoriamo sull’agio, siamo lontani dal paradigma della tossicodipendenza”. Allora, “prima di tutto l’informazione: chiara, diretta, pragmatica – dice Polidori -. I servizi devono cambiare ambiti e linguaggi, bisogna raggiungere i giovani nei luoghi della notte, come si fa ad Amsterdam, e offrire loro anche servizi che li rendano consumatori più consapevoli, come appunto l’analisi delle pastiglie”. Informazione anche per Fabrizia Bagozzi, ma “dentro un ripensamento di metodologie e linguaggi. Abbiamo rivisitato il lavoro di strada scoprendo i luoghi del divertimento notturno, abbiamo cercato messaggi che non avessero un impatto respingente e costruito alleanze nel mondo del nightclubbing”. Ma la cosa più importante è conoscerli davvero, i consumatori. “Il territorio è importantissimo – ricorda Cippitelli -. Solo un intervento davvero radicato nel contesto locale, che sappia darsi il tempo adeguato per conoscere e creare un rapporto di fiducia, può dare dei risultati”. E poi, puntare sul lavoro tra “pari”: l’immagine di “generazione silenziosa”, che molte ricerche attribuiscono a questi giovani, sembra contraddetta dall’esperienza. “Forse siamo noi che non sappiamo ascoltarla, questa generazione – dice Cippitelli -. Noi lavoriamo con piccoli gruppi di ragazzi che autoproducono materiali informativi e sono disponibili a esperienze di educazione tra pari. E’ un modo di lavorare che funziona. Insomma, a sentire questi operatori, il rischio maggiore oggi è quello di un ¾aggiustamento” degli interventi che rimanga in superficie: qualche discoteca, qualche incontro nelle scuole, magari condito di allarmismo, ma non la riscrittura vera della grammatica del lavoro con i giovani, non la vera messa in discussione delle “teorie del disagio”. Almeno tre appaiono le premesse necessarie per una vera rivoluzione delle strategie di intervento: conoscere davvero, dall’interno e con tutte le loro differenze, i diversi stili di consumo, imparare a puntare sulle specificità culturali, accettandole e facendone una risorsa e, non per ultimo, “prendere sul serio” i giovani. Non basta essere osservatori esterni. Bisogna, insomma, imparare a interagire con loro, non essere giudicanti e non etichettare con il marchio del disagio ciò che non capiamo e non sappiamo. “Dobbiamo recuperare un rapporto tra giovani e adulti in cui questi ultimi sappiano davvero prendersi cura di loro”, aggiunge Cippitelli. E ricorda che, se si vuole davvero entrare in relazione con questo mondo, “non si può pensare, come ha fatto qualche ente locale, che basti regalare a un gruppo di writers un bus sfasciato da pitturare come risposta alla richiesta di spazi urbani da agire…”. Sperando che i finanziamenti prossimi venturi non siano… una distribuzione di “perline di poco prezzo agli indigeni”.