Due stanze a piano terra, pochi metri quadrati, un piccolo frigorifero, poltrone e un divano, tavoli, colori, pasta di sale, pennelli. E la porta, sulla strada, sempre aperta. I passanti sbirciano all’interno, incuriositi, qualcuno, i più anziani, chiedono se “hanno riaperto l’ambulatorio”: sulla parete esterna, ancora un cartello blu con la scritta USL – poliambulatorio. Ma le due stanze nella popolosa periferia torinese hanno cambiato destinazione: sono il primo “drop in” della città. Ma che cos’è un drop in? “Un posto per stare in contatto con le persone tossicodipendenti, un posto per dare loro uno spazio diverso dalla piazza e diverso dalla sala d’attesa del nostro ambulatorio, dove in tanti si trovavano a stazionare, non avendo nulla di meglio a disposizione” dice Paola Coscio, medico del Servizio tossicodipendenze (Sert) della ASL 3, in corso Lombardia, una tra gli operatori professionali protagonisti e promotori di questo progetto. “Stare in contatto” è una frase che questi operatori pronunciano spesso, perché, dice Paola “i trenta operatori del nostro servizio, pur diversi per professionalità e mentalità, lavorano tutti secondo una filosofia che ha alla base una nozione molto semplice ma non così scontata nei nostri servizi: che il nostro lavoro ha come fine principale non necessariamente la “guarigione” dei nostri utenti, bensì il prendersi cura di loro, comunque e quali che siano le loro scelte”.
UNA SOGLIA BASSISSIMA
Cos’è un drop in? “Innanzitutto un luogo in cui la gente viene accettata per quello che è – dice Tony Garzillo, quarant’anni, un vissuto personale di tossicodipendenza, “educatore pari” e redattore del giornale di strada “Polvere” – Forniamo dei servizi a bassissima soglia, senza pensare a ciò che le persone saranno domani, ma partendo da ciò che sono e da ciò di cui hanno bisogno oggi”. Siringhe sterili, preservativi, buoni consigli per la prevenzione, colloqui e ascolto sui problemi personali, aiuto nel contatto con altri servizi. “Ma non solo – sottolinea ancora Tony – Qui c’è la possibilità di costruire qualcosa insieme, tra chi di noi ci lavora e chi frequenta il drop in come “utente”. Si possono fare progetti insieme e poi attuarli concretamente, si può essere attivi e creativi, e soprattutto fornitori e fruitori al tempo stesso di questo spazio. Abbiamo messo in piedi un laboratorio teatrale, uno di artigianato, un gruppo di auto-aiuto”. Il concetto di un diverso rapporto tra chi “eroga” un servizio e chi lo “utilizza” pare stare alla base di questa scommessa, che è praticamente rappresentata, tra l’altro, da uno staff che mette insieme operatori professionali e persone con vissuti diretti, anche attuali, di consumo di sostanze. “Il drop in serve a coloro che lo frequentano, naturalmente, ma anche a coloro che vi lavorano – dicono Luigi Marini e Gigi Arcieri, due giovani educatori appena diplomati che sperimentano qui, al drop in, il loro ruolo professionale – Qui è possibile confrontarsi e mettersi in discussione utilizzando dinamiche informali e libere da patti terapeutici. Il lavoro di questa équipe “mista” è diretto a promuovere autonomia e partecipazione delle persone direttamente interessate, e tutte le diverse esperienze e competenze vengono rivalutate”. Insomma, non è la siringa la cosa importante, è un lavoro educativo che rende attivi, che “tira in ballo” saperi esperienziali e vissuti soggettivi che la gran parte dei contesti sociali e terapeutici invece tendono a svalorizzare. “La mia esperienza di tossicodipendenza – spiega Tony – posso utilizzarla positivamente per aiutare gli altri. Per me significa che recupero un pezzo del mio vissuto, che così posso non buttar via nulla della mia vita”. Lo sguardo professionale di Luigi e Gigi coglie un altro aspetto: “Quello che legittima la posizione di alcuni operatori nell’équipe del drop in – dicono – non è il fatto di essere stati o essere tossicodipendenti ma quello di possedere delle abilità e delle competenze che sono utili se non indispensabili per questo progetto. Lo stesso dicasi per gli operatori professionali: la nostra presenza non è legittimata dal titolo ma dalla capacità di dialogare con le ideologie, con la storia, con le aspettative di ognuno”. Questo cercare le persone, e con esse le abilità reali più che i ruoli è un tema ricorrente. “La nostra filosofia ha ribaltato in qualche modo uno stereotipo che va per la maggiore – dice Paola -, quello per cui l’utente che arriva a un Sert è sempre un manipolatore, uno che usa strumentalmente servizi e operatori. Noi pensiamo invece che si debbano ritenere lecite tutte le domande che vengono portate, che sono comunque ciò che in quel momento quel dato utente esprime, e che su quelle il servizio debba lavorare. Non solo, ma che ogni utente ha diritto a un servizio che lo ascolti ed affronti con lui o lei i problemi che si presentano”.
PRATICAMENTE COLLEGHI
Nelle parole degli operatori professionali prende corpo un utente in “carne e ossa” non solo descritto dai suoi problemi, ma anche dalle sue capacità, idee, consapevolezze. “Lavorare in un gruppo misto – dicono Gigi e Luigi – ci mette nella condizione di imparare a confrontarci con saperi diversi e a riconoscerli. Qui si cerca di superare una logica puramente assistenzialistica, del tipo “io sono qui per risolvere il tuo problema” a favore di una logica partecipativa che promuove l’autonomia delle persone”. Ma qual è l’altro punto di vista, quello dell'”educatore pari”? “È una bella équipe, posso dire che siamo stati fortunati – dice Tony – Sono persone che sanno mettersi in gioco personalmente, al di là del ruolo. A volte sembra che per loro sia un impegno sociale più che un lavoro, e questo mi piace molto. Avevo già conosciuto, come utente, operatori Sert in gamba, ma qui, in più c’è questo sentirsi “colleghi”, persone che condividono gli stessi obiettivi”. Tony dice di sentirsi “dentro a un gruppo”, in cui le decisioni vengono prese davvero collettivamente, anzi, addirittura “a volte sembra che il nostro parere di pari abbia anche più peso”. Ma è stato facile per tutti, lavorare come “colleghi”, fianco a fianco con chi è ancora in metadone o tranquillamente dice che ancora, qualche volta, si fa? “All’inizio non è stato facile per tutti – ricorda Paola – ma non tanto per la presenza nello staff di persone tossicodipendenti, quanto per la grande informalità del luogo e delle relazioni: per qualcuno era difficile non avere un compito chiaro, ma piuttosto stare lì, esserci, e vedere di volta in volta come gestire la situazione. Oggi si lavora bene insieme, non c’è sovrapposizione di ruoli, anzi c’è reciproco riconoscimento delle differenze”. Il ruolo degli educatori pari viene ritenuto molto utile nel contatto con i clienti, anche se non mancano le difficoltà e i punti di crisi. “Quello che più mi piace è che qui si riesce a comunicare in modo tranquillo – dice Tony – e per lo più sincero, perché con noi non hanno bisogno di mentire, di mascherarsi. Qui nessuno li giudica. Le difficoltà nascono a volte con chi, avendo introiettato una cattiva immagine di sé come tossico, la stessa che la società gli rimanda continuamente, la riversa anche su di noi, pensando che finché siamo a contatto con sostanze o metadone non siamo credibili. Cambiare questo tipo di mentalità è un obiettivo importantissimo, per far sì che le persone imparino ad avere fiducia in se stesse. Non pochi di loro esprimono una cultura del tutto conservatrice, e sono quelli che fanno più fatica a prendere in mano la propria vita, ad attivarsi. Dobbiamo aiutarli a far scattare questo meccanismo”.
RIDISTRIBUIRE POTERE
Insomma, fare empowerment, direbbe un tecnico. Ma fare empowerment significa, da sempre, anche ridistribuire potere tra servizio e cliente, tra operatore e utente. “Certo, nel servizio si rimettono in discussione gli equilibri di potere se avviene, come qui, una ridistribuzione dell’intervento rispetto al benessere psico-fisico e sociale degli utenti – dicono Gigi e Luigi – e per gli utenti significa anche sforzarsi, tenere conto delle proprie capacità, non nascondersi dietro l’inadeguatezza di altre persone. È faticoso, ma l’unica cosa da fare è lavorare per l’integrazione tra chi è distante ma lavora allo stesso obiettivo comune”. Qualcuno crede ancora che il lavoro di bassa soglia si esaurisca nel dare qualche siringa, e fa difficoltà a vederne il contenuto educativo. Ma il punto di vista di chi è del mestiere è diverso. “Il nostro lavoro educativo parte dalla consapevolezza che nessuno può decidere in che modo, quando, dove e cosa cambiare in un’altra persona – spiegano i due educatori – Noi possiamo lavorare insieme alle persone che vivono sulla propria pelle una condizione di disagio nel tentativo di mantenere o creare spazi in grado di tutelare libertà, scelta, possibilità di crescita. Prestare attenzione non solo alle domande di remissione dall’uso di sostanze ma anche alla riduzione della mortalità o ai devastanti risvolti sociali causati non dalla droga ma dell’emarginazione e dalla solitudine, significa prendersi cura della persona. Certo, significa anche abbandonare “postazioni” più sicure per andare incontro all’altro…”.
LABORATORIO DI RELAZIONI
Più se ne parla e più questo drop in, pur nella sua spoglia concretezza ed essenzialità, appare come uno straordinario laboratorio di relazioni, e proprio di relazioni educative. Ma va proprio tutto bene? “Tra noi sì e anche con gli utenti – dice Tony – quello che non va è che ci sono poche risorse, poco spazio e anche troppo poco tempo degli operatori professionali. Vorremmo un ambiente più grande, dei computer, offrire una migliore ristorazione a chi sta in strada, letti d’emergenza…”. Le risorse sono state un grande problema, all’inizio. “Abbiamo iniziato con niente – dice Paola – abbiamo arredato le stanze con mobili di fortuna regalati o raccolti da noi e dalle stesse persone tossicodipendenti che ci aiutavano. Abbiamo iniziato proprio con la forza di volontà, perché il servizio voleva aprire questo spazio. Se avessimo dovuto aspettare di avere tutto ciò che ci serviva…”. I primi gettoni pagati agli educatori pari arrivavano da un progetto del Gruppo Abele – che ancora oggi partecipa al progetto attraverso i suoi operatori di strada – per l’Istituto Superiore di Sanità, basato sullo sviluppo del peer support, l’auto-aiuto tra pari nella limitazione del danno. Oggi, sono retribuiti per il loro lavoro direttamente dal servizio pubblico. E a loro piacerebbe che il drop in divenisse luogo di aggregazione per progettare impresa sociale, per costruire “davvero autonomia”. “Ciò che manca di più però – aggiunge Tony – è un aiuto concreto a chi sta male per l’astinenza, una nostra capacità di far fronte alle emergenze e alle sofferenze che uno stato di dipendenza comporta: a questo nessuno pensa seriamente”.
PRONTO SOCCORSO
Non è proprio così: “Il nostro servizio da tempo ragiona attorno a un centro che sappia offrire un pronto soccorso metadonico per chi sta male, che fornisca anche un supporto psico-sociale in situazioni di crisi ed emergenza – dice Paola -, l’attuale sistema dei servizi ai problemi di carenza non risponde, né attraverso i Sert, né attraverso il pronto soccorso degli ospedali. Una prescrizione di metadone a bassa soglia, senza l’imposizione di troppe regole, potrebbe ridurre i rischi che molti corrono quando si trovano in situazione di crisi”. Dunque un progetto c’è: il Sert di corso Lombardia, a Torino, l’ha scritto, dettagliato, argomentato, ha trovato partner sensibili anche nel privato sociale, come il Gruppo Abele. Ma non ha trovato la stessa sensibilità da parte di chi i progetti li approva e li finanzia. La Regione Piemonte, per esempio, che ha deciso di non destinare nemmeno una lira dei fondi della legge 309 a questo servizio. Cosa ne pensano i consumatori? “Fino al 1985, qui a Torino, se stavi male potevi trovare un sostegno metadonico presso qualsiasi pronto soccorso – racconta Tony – ed era ovvio: se la dipendenza è anche una malattia e se la carenza è la sofferenza che questa malattia comporta, perché, a differenza di tutte le altre patologie, non può essere curata con il suo giusto farmaco? Poi, tutte le chiacchiere ideologiche contro il metadone ci hanno tolto anche questo. Il minimo sarebbe riaprire questo discorso, con un presidio aperto 24 ore su 24. Se poi potessimo farlo qui, presso il drop in sarebbe proprio il massimo…”. Per ora, qualche goccia di valium al primo pronto soccorso che si trova, e via..