Dove sono le nevi di un tempo, e le puttane, e la malavita? Cantava Juliette Greco, con la sua gola di nostalgia e di ironia: “Où sont passée les maisons closes, où je coulais des jours si doux, j’avais alors un teint de rose, et l’on était à mes génoux … Dove sono finite le case chiuse? Ora si vogliono riaprire, con sprezzo della contraddizione. Sono di una generazione che, per poco più di un pelo, non è entrata in un casino. Me ne ricordo le persiane accostate in pieno giorno, in pieno sole. Strattoni del braccio perché mi voltassi dall’altra parte quando, più piccolo, chiedevo a mia madre. Però, quando ripenso al povero paesaggio – povero ma bello – degli edifici della mia infanzia, ne ho l’impressione di un rigoroso sistema di case chiuse. Sulla maggioranza dei posti c’era scritto: Zona militare, è vietato l’accesso. Un carcere era nel mezzo della città, vecchio e alto, riconoscibile anche lui dalle finestre, occhi accecati. Una volta vidi un gruppo di carcerati: forzati ottocenteschi in catene, con casacche marrone a strisce larghe e teste rasate, bella mostra di cicatrici. Mia madre deve avermi strattonato anche allora perché guardassi altrove. C’era, né periferico né nascosto, però sigillato allo sguardo esterno, il manicomio. Dentro si immaginavano – quando cominciai ad immaginare che quei posti avessero un dentro – ottusi esseri muti, o mugolanti, sigillati a loro volta dentro camicie di forza, sgabuzzini bui, brande di contenzione. Ma anche i luoghi pubblici erano chiusi, per così dire. Un ufficio qualunque, anche infimo: era come se dappertutto fosse scritto VIETATO, portoni pesanti e grevi vetri smerigliati impedissero di dare un’occhiata. Le scuole ti facevano entrare a comando e a comando uscire, e confinavano i movimenti a un tragitto obbligato senza disgressioni. Andare al gabinetto era una deroga accigliata. Fabbriche, cantieri, erano più militarizzati delle caserme: riserve private, STRETTAMENTE VIETATO L’ACCESSO AI NON ADDETTI. Avevano dentro un loro esercito, privato e rude: alla FIAT si chiamavano “guardioni”, non so perché, forse guardiani non sembrava abbastanza grosso e cattivo. I muri di quel vecchio mondo erano orlati di fili spinati e cocci aguzzi di bottiglia – come si potrebbe capire Montale, oggi? – anche i muri dei giardini di casa. I ragazzi di strada, che erano scalzi e non avrebbero potuto entrare in nessun luogo pubblico, neanche un caffè, senza essere cacciati a prima vista, tiravano sassi di là dai muraglioni di cinta (si chiamavano così i muri, come i guardioni) per vendetta. In ogni cittadina erano eretti mille muri di Berlino. Il mondo era chiuso, case chiuse. Non si vedeva dentro. Come se la guerra finita avesse dimenticato la carta nera dell’oscuramento. Nelle fiabe danesi la piccola fiammiferaia intirizzita guardava dal marciapiede le luci calde e la festa. Così è il Nord: finestre coi vetri trasparenti, fiori, e tendine fatte per decorare, non per nascondere. Si vede tutto, da fuori, dunque non si guarda dentro, per discrezione e disinteresse. Qui da noi si spiava furtivamente dovunque, in uno spiazzo di manovre militari o in uno spogliatoio al mare. Le chiese, quando avevano un bravo prete, insegnavano alla gente ad avere confidenza, anche ai poveri. Altre volte no, erano respingenti come i cartelli minacciosi all’ingresso sull’abbigliamento e il voto alla DC. Bene. Nel ’68, qualunque altra cosa se ne pensi, furono buttati via tutti quei cartelli con su scritto: Vietato l’accesso. (Quasi tutti). Furono spalancate case e stanze chiuse. Stanze di presidi e uffici di rettorato. Aule magne. Corsie di ospedale. Manicomi e galere: le finestre restarono cieche e sbarrate, ma persone vive si sporsero dai tetti agitando lenzuola. Fabbriche furono percorse fuori dai tragitti obbligati, estranei ci entrarono – sacrilegio dell’extraterritorialità padronale, più ferrea di ogni sovranità statale. Caserme furono raccontate, e visitate. Si aprirono le case chiuse. Di persona. Le telecamere sarebbero venute al seguito: come l’intendenza dietro i battaglioni di combattenti. Oggi, qualcosa di quell’apertura è rimasta, benché il nostro mondo sia tentato di richiudersi le porte alle spalle. Si è allargata l’idea che il mondo sia una casa comune, benché si torni a restringerla contro i nuovi arrivati. Cioè si è ammesso che esistano i diritti, e anche una cordialità possibile: dovunque, e che non esistano zone sottratte ai diritti. Camere oscure: luoghi in cui malmenare, forse torturare, violentare, offendere – luoghi ciechi, senza finestre e coi muri insonori. Così dovrebbe essere. Quando si discute del carcere, si discute solo di questo. Della “apertura” del carcere agli sguardi. Della “visibilità”. La rieducazione, la risocializzazione, stavano scritte nella Costituzione: era importante, ma era un modo di dire. La prima condizione per cominciare ad attuare quel modo di dire era la trasparenza: un po’ di trasparenza. La riforma carceraria l’hanno fatta quei sepolti vivi che salirono sui tetti con le lenzuola: per farsi vedere. Il luogo comune ripete se stesso: bisogna assicurare la sicurezza ed insieme la rieducazione. La sicurezza è l’invisibilità, la rieducazione è la trasparenza: la gabbia esposta al pubblico. Gli agenti penitenziari – angeli di custodia senza nome – sono la sicurezza. Ce n’è quasi uno per detenuto. Sono troppo pochi, si dice. Gli operatori civili sono il “trattamento” – una certa visibilità. Sono uno per 50 detenuti. Io penso che per questo Alessandro Margara sia stato giubilato dal Ministero, e così lo saluto.