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Protagonismo delle città e politica della droga: ricordate? Agli inizi degli anni ‘90, questo binomio ha dato il via al movimento per la riduzione del danno con la famosa Carta di Francoforte, sottoscritta da diverse municipalità del Nord Europa. Quasi venti anni dopo, l’idea travalica l’oceano e dà luogo al Primo Forum delle città europee, dell’America Latina e dei Caraibi: un progetto finanziato dalla Ue e coordinato dal Cicad (Commissione interamericana per il controllo dell’abuso di droga) e dall’Oas (Organizzazione degli Stati americani). Questo primo forum, che si è svolto a Santo Domingo dal 2 al 5 aprile, è stato incentrato sulle politiche del trattamento.
Le differenze rispetto al movimento delle città nord europee sono evidenti, se solo si pensa al succo della Carta di Francoforte, per promuovere politiche di tolleranza e ridurre l’impatto delle politiche penali. Invece, il Forum di Santo Domingo non si presentava come un movimento riformatore: l’intento esplicito era circoscritto alla ricerca di collaborazioni e gemellaggi fra le città, oltre i rapporti a livello di stati. Sarebbe però sbagliato non cogliere la scelta del terreno politico operata a Santo Domingo, dichiarata nel discorso iniziale di Ann Chisman (responsabile del settore riduzione della domanda del Cicad): costruire una piattaforma di advocacy sull’importanza della cura e dell’accesso alle cure. Un’invocazione che rievoca il piatto forte di Vienna 2008, su cui si è speso il fronte delle mild policies: modificare l’equilibrio fra repressione e trattamento (fra riduzione dell’offerta e riduzione della domanda) a favore di quest’ultimo. Sulla stessa sintonia, a Santo Domingo è risuonata la denuncia dell’incertezza, se non dell’assenza, di budget per le politiche sociosanitarie, a fronte della certezza di fondi per la repressione. E del rischio di «criminalizzare la povertà» se non si scommette su politiche della droga di inclusione sociale (Romani Gerner, Uruguay). In questa luce si comprende anche l’importanza della scelta del partner politico, dell’Europa “riformista” in materia di droga.
Primo: prendersi cura delle persone dipendenti. Si potrebbe riassumere con questo slogan il succo di Santo Domingo. E secondo: curare invece di punire, nel senso di privilegiare la strada dei trattamenti alternativi al carcere e delle drug courts, ossia dei “tribunali della droga”. Il tema complesso e delicato è ampiamente trattato in questo numero dal giurista belga Brice de Ruyver e da Stefano Anastasia.
Sui vantaggi dell’enfasi sul trattamento, si è già detto. Guardiamo ora ai limiti. Se potenziare il trattamento è la sola via (politica) per limitare le tough policies (senza intaccare le normative proibizioniste), c’è il rischio di sopravvalutare il ruolo dello stesso. “Il trattamento funziona”; “Il trattamento riduce la criminalità legata alla droga”: questi i messaggi di molti interventi di esperti, basati su un evidente ottimismo della volontà politica. Tutti i tipi di cura funzionano, da quelli farmacologici, a quelli psicoterapici, alla comunità: con percentuali di successo che sfiorano l’80%, si è detto (Mandell, John Hopkins University di Baltimora). Sappiamo però che cifre simili riguardano solo chi completa il trattamento. Così come sappiamo che offrire al consumatore autore di un reato la possibilità di curarsi fuori dal carcere è certo una soluzione umanitaria, meno inutile e crudele del carcere. Ma non è detto che il vantaggio del singolo si traduca anche in un beneficio collettivo: l’applicazione delle misure terapeutiche alternative alla prigione ha davvero ridotto la presenza di tossicodipendenti in carcere? Sembrerebbe di no, anche nell’illuminata Europa.
D’altro lato, la linea del “Primo, il trattamento” permette per il momento di imbarcare un po’ tutto il bestiario politico sull’Arca di Noé della droga. E di far convivere il sindaco belga di Gent, che guarda con realismo e spirito di convivenza ad una società permeata dalle droghe, col rappresentante svedese delle città europee contro la droga, che considera irrinunciabile la punizione dei consumatori; chi vorrebbe un approccio simile per le droghe illegali e legali (Romani Gerner), e chi sottolinea il legame fra droga e terrorismo e vede la repressione come fondamento della democrazia (Lale-Demoz, rappresentante in Colombia dell’agenzia Onu sulle droghe).
Ultimo aspetto, ma non meno importante: la riduzione del danno. Il tema era presente, ma confinato ai margini. In Europa, la riduzione del danno si è conquistata il palcoscenico con l’emergenza eroina; mentre in America Latina la “minaccia” è sempre stata la cocaina, ha affermato Chisman. Solo ora l’eroina per via iniettiva comincia a comparire nei paesi latinoamericani, mentre in Europa crescono i consumi di cocaina. Sarà la paura dell’Aids a far decollare la riduzione del danno? Forse, ma certo il problema non sta tutto qui, anche perché la riduzione del danno non è solo siringhe pulite. Nel programma generale, accanto alla voce “riduzione del danno” c’era un asterisco in rosso, che rimandava alla “giusta” nozione di Harm Reduction: centri a bassa soglia, lavoro di strada e prevenzione dell’Hiv. È invece «specificatamente esclusa da questo progetto – si leggeva – la partecipazione degli stati membri dell’Oas al finanziamento o alla promozione delle stanze del consumo e della prescrizione di eroina medica».
Tra Europa e Americhe, c’è ancora di mezzo l’oceano. Anche quando ci si sforza di accorciare le distanze.