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Il riordino della medicina penitenziaria e il suo passaggio al Servizio Sanitario Nazionale (previsto dal disegno di legge di delega al governo sulla revisione del decreto legislativo 502/517 varato dalla Camera e in discussione al Senato), ha suscitato reazioni spesso opposte e polemiche che è bene non sottovalutare. Queste, infatti, sono spia di un diffuso disagio per le condizioni di vivibilità delle carceri, che coinvolge anche gli operatori impegnati in un difficile lavoro quotidiano ed è frutto di un clima di sfiducia che a tali condizioni si accompagna. Non è superfluo ricordare, dunque, che l’attuale proposta di merito non nasce dal nulla ma che, anzi, ha avuto una complessa e meditata gestazione.

Nella XI legislatura mi occupai, come relatrice, dell’indagine conoscitiva sulla situazione sanitaria delle carceri, svolta dalla Commissione Sanità del Senato, pregevole lavoro che comportò la ricognizione di diverse realtà carcerarie sparse nel Paese e un consistente numero di audizioni; ciò permise a noi parlamentari di renderci conto da vicino della condizione dei detenuti nel nostro sistema carcerario. Il panorama emerso dall’indagine non risultava confortante e gli elementi più negativi, pur dipendendo da fattori generali, quali il sovraffollamento e la conseguente promiscuità, avevano importanti riflessi sanitari. Su una popolazione carceraria più che doppia rispetto alla capienza prevista dalle strutture, anche per effetto delle norme punitive sulla droga precedenti al referendum, furono riscontrate evidenti carenze igienico-sanitarie, probabilmente alla base di una situazione epidemiologica in crescente peggioramento per tossicodipendenza e sieropositività, tanto da far paragonare il carcere italiano – come disse don Luigi Ciotti – a un grande “lazzaretto’’. Tutto ciò, congiunto al ritardo dei percorsi autorizzatorî per motivi sanitari concessi dai magistrati e alla assoluta carenza del personale impegnato nell’assistenza sanitaria, testimoniava la palese insufficienza del modello organizzativo della sanità penitenziaria e, più generale, l’assenza di qualsiasi strategia del sistema a livello della prevenzione e dell’assistenza sanitaria e riabilitativa. Anche dei 13 centri clinici penitenziari deputati a fornire assistenza diagnostica e terapeutica di livello più elevato, con assorbimento di ingenti risorse finanziarie, risultava un’utilizzazione meno che soddisfacente. L’assistenza sanitaria ai tossicodipendenti, spesso avviata in convenzione tra amministrazione penitenziaria e Regioni, appariva al di sotto dell’effettivo fabbisogno, con difficoltà inerenti sia la continuità terapeutica che il prevalere degli orientamenti culturali e terapeutici inclini alla assoluta astinenza.

Quanto accennato, congiunto alla delicata situazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari, portò la Commissione a concludere, nel gennaio del 1994, che la teorica autonomia della sanità penitenziaria, sia dal SSN che dall’Amministrazione, in realtà veniva a risolversi in una dipendenza stretta dalla direzione penitenziaria, aggravata allora dalle particolari modalità di accesso alla carriera del personale sanitario, in un contesto esiziale per il rapporto fiduciario tra medico e paziente. La riflessione, allargandosi al problema dei costi, sicuramente superiori a quelli del SSN, veniva a indicare la necessità di una maggiore responsabilizzazione nel settore da parte del SSN, e di un superamento della separatezza in cui sopravvive la sanità penitenziaria, che rischia di subordinare il diritto alla salute dei detenuti a esigenze cautelari e di sicurezza, del tutto improprie dal lato sanitario.

Quelle analisi le ritengo ancora valide. Esistono, è vero, peculiarità legate alla particolarità della “utenza”, al tipo di patologie riscontrabili, alle particolari condizioni psicologiche dei detenuti; ma quante volte il Servizio Sanitario Nazionale è chiamato a confrontarsi con le molteplici problematiche (penso, ad esempio, alla psichiatria) connesse al disagio e non solo alla malattia? Ebbene, tutto questo produce una sfida che va accolta dal servizio pubblico il quale non può certo optare in questi casi per uno scorporo e una ghettizzazione delle problematiche o continuare a mantenere strutture parallele autoreferenziali, ma invece cercare la via della integrazione, della comunicazione e della innovazione organizzativa. Per questo credo che il testo in discussione, così emendato alla Camera, offra sufficienti garanzie per compiere un passaggio al SSN che è necessario per dare alla sanità penitenziaria caratteristiche di equità, efficacia e modernità.

L’autrice è Senatrice e Sottosegretario alla Sanità