Vorrei chiedere al ministro Fassino se è consapevole delle
ricadute culturali e politiche della linea che ha presentato a
Genova, condensata nello slogan "decarcerazione dei
tossicodipendenti senza depenalizzazione". Innanzitutto ciò
significa rimangiarsi gli impegni presi alla precedente
conferenza. Per giustificare il cambiamento di rotta, la ministra
Turco ha affermato che a Napoli la depenalizzazione non era
"condivisa da tutti" (a differenza della carcerazione). Non è
vero. Essa era invece scaturita all'unanimità dalla conferenza
come proposta di mediazione, rispetto ad ipotesi più avanzate,
come la legalizzazione delle droghe leggere, sostenuta peraltro
da molti. A riprova sta il fatto che per ben due volte, durante
la discussione in parlamento della legge sulla depenalizzazione
dei reati minori, il governo chiese di non affrontare il tema
delle droghe perché stava predisponendo un progetto di riforma
complessivo. Dunque la nuova linea è una svolta politica e
occorre darne conto come tale, in nome della trasparenza.
Ma esaminiamo più nel merito la proposta di Fassino: innalzare il
tetto delle pene (attualmente di quattro anni), al di sotto delle
quali sia possibile l'affidamento in prova dei detenuti
tossicodipendenti. Una premessa. La pena come incentivo alla
cura, e il carcere come via crucis alla "redenzione terapeutica"
è stata la filosofia di fondo della legge Jervolino-Vassalli.
Durante la discussione parlamentare la sinistra all'opposizione
denunciò il rischio che l'approccio custodiale e punitivo del
carcere "contaminasse" il circuito terapeutico (e non viceversa).
Rischio che in questi anni è divenuto una realtà, come ci dicono
le cifre: l'applicazione dell'affidamento in prova non ha mai
diminuito il numero dei detenuti tossicodipendenti, saldamente
attestati intorno alla ragguardevole cifra di oltre 14mila
soggetti. Ossia il numero dei tossicodipendenti sottoposti a
trattamento in alternativa al carcere si è aggiunto a quelli in
detenzione, creando un enorme circuito custodiale. In parole
povere la "decarcerazione" è una parola che nei fatti tradisce se
stessa. Ampliare l'affidamento in prova non serve se non è
accompagnato da una riduzione dell'impatto penale della legge.
Solo così si può sperare di contenere il ricorso al carcere.
Ora, non solo Fassino dichiara decaduta l'ipotesi di una seria
riforma della Jervolino-Vassalli, ma addirittura ne accentua la
filosofia, citando solo le comunità terapeutiche come alternativa
al carcere. Forse il ministro non sa che oggi i tossicodipendenti
possono essere affidati anche ai servizi per programmi di
inserimento sociale. O forse lo sa, ma gli sembra che le comunità
offrano maggiori garanzie "custodiali" e di "redenzione dalla
droga". Per l'appunto.
E' una linea ben diversa da quella tracciata da Veronesi, di
"accettazione e tolleranza" del consumo e di riduzione dei danni
della proibizione. Ad Amato sta una parola risolutiva, ma il
presidente del consiglio neppure si presenterà all'assise di
Genova. Alla prima Conferenza di Palermo Amato rinnegò la linea
punitiva della legge del '90, e si dichiarò nettamente a favore
della depenalizzazione. Se, ben sette anni dopo, e per di più a
capo di una maggioranza di centro sinistra, egli non avesse il
coraggio quantomeno di sostenere la sua posizione di allora,
sarebbe grave. Ci rifletta ancora, dottor Sottile.