Guardare la realtà “ordinaria” delle droghe – le persone che usano droghe e gli stili di consumo, gli operatori e i servizi, la percezione sociale, le politiche – attraverso la lente della “extra-ordinaria” esperienza della pandemia può portarci a scoperte inedite. Dalle ricerche e le osservazioni sul campo, attraverso una rinnovata riflessività nel mondo degli operatori e delle associazioni, fino a individuare le direzioni di un necessario e coraggioso cambiamento.
La fase del lockdown ha visto anche in Italia, come in tutta Europa e nel mondo, una vivace attività di ricerca, osservazione diretta e scambio tra operatori del pubblico e del privato, associazioni, organizzazioni di persone che usano sostanze, ricercatori e attivisti.
La percezione è stata non solo quella di una urgenza – capire cosa stava (e sta) avvenendo nei consumi, nel mercato, nei servizi – per far fronte a una situazione eccezionale, ma anche e in prospettiva soprattutto quella di “apprendere lezioni” da uno stato eccezionale per un assessment dello “stato ordinario” dei nostri approcci ai consumi di droghe, delle politiche e del nostro sistema di intervento. Non a caso un gruppo di ricerche indipendenti – condotte dalle reti nazionali dell’associazionismo per la RdD e la riforma delle politiche sulle droghe, con il contributo di molti operatori del pubblico – si è dato come cornice il titolo emblematico “Perché nulla sia come prima”.
“Perché nulla sia come prima” è anche il sottotitolo di questa Summer School 2020.
Che vuole aiutare a farci trovare, nella filigrana delle ricerche e delle esperienze di questa fase, direttrici del cambiamento su cui lavorare da oggi, da subito.
Abbiamo straordinarie potenzialità, sotto questo profilo, se è vero che crisi significa anche transito e opportunità.
Come sempre, la Summer School cerca di evidenziare scenari e suggerire prospettive nuove, e quest’anno, partendo dal Covid19, la prospettiva non può che essere quella di un ragionamento radicale sui nostri modelli e approcci, tanto quanto è radicale la sfida che ci siamo trovati e ancora ci troviamo a vivere. Ci inseriamo, con i nostri temi, pienamente dentro un dibattito di cui cogliamo soprattutto due grandi ambiti critici di riflessione, per altro tra loro intrecciati.
Il primo è quello relativo alla promozione e alla tutela della salute e alla sanità pubblica: non solo l’impoverimento sotto il profilo delle risorse del nostro sistema sanitario nazionale, sotto i colpi dei tagli progressivi ai finanziamenti nel corso degli anni, ma la questione del modello del sistema sanità, divenuto ospedalocentrico con ampi settori privatizzati a discapito del territorio (per effetto delle leggi che dal DL 502 del ’93 fino alla regionalizzazione della sanità con la riforma del titolo V del 2001 hanno scardinato l’impianto territoriale della L. 833/78). Questione esplosa con la pandemia – che ha avuto nei mancati dispositivi proattivi, preventivi e comunicativi del territorio un suo cruciale vulnus – ma già ampiamente sul tappeto da decenni. Un processo che non è solo organizzativo, ma porta in sé importanti aspetti paradigmatici, un’idea di salute e di benessere le cui basi sono sempre meno i soggetti e le comunità in un dialogo attivo con il sapere scientifico, e sempre più un neobiodeterminismo dominante, specialismi esasperati e tecnologizzazioni che sono a loro volta fonte di un potere pervasivo e opaco. Che è anche l’idea di un soggetto ridotto a fornitore passivo e inconsapevole di informazioni di cui non ha il controllo in un processo cui non partecipa.
Il secondo ambito è quello del governo e del controllo dei soggetti, dei corpi e dei comportamenti che entrano nel gioco della salute e della sanità: tutte le questioni che possiamo definire di biopolitica della pandemia, e che attengono alla sospensione di alcuni diritti in funzione del governo dell’emergenza, ai nessi autoregolazione-norma-proibizione, all’idea stessa di salute, che scivola dall’essere un diritto al diventare un dovere eterodefinito, con le conseguenti ricadute sul concetto stesso di salute pubblica, sui suoi obiettivi e le sue politiche. In questo ambito si manifesta un potenziamento dei dispositivi di stigmatizzazione, tipici per l’iscrizione nei corpi delle rappresentazioni dei tossicodipendenti, dei folli e delle categorie di persone definite socialmente come “pericolose”, con la costruzione sociale del malato infetto da Covid 19, del nemico dietro l’angolo, che ci sta accanto, un pericolo incombente da cui distanziarsi, un nemico invisibile che si cela dietro ognuno di noi. Il malato non è una persona da compatire, con cui solidarizzare per la sua possibile sofferenza ma da temere, colpevolizzare. E i primi effetti si sono visti sia con la strumentalizzazione “colpevole”degli episodi in carcere che con la montatura dell’episodio tragico di Terni, e la strumentalizzazione della morte di due ragazzi. Così come la continua colpevolizzazione dei comportamenti giovanili rappresentati “costitutivamente” come i più pericolosi, rinunciando a promuovere un ruolo attivo e consapevole dei giovani quale strategia efficace per adottare comportamenti sicuri necessari in questa fase di emergenza. Per non dire dell’elezione – ancora una volta – a nemico perfetto dei migranti, accusati di portare il virus mentre sotto accusa dovrebbero essere le condizioni in cui sono obbligati a vivere e le troppe inadempienze della gestione degli hotspot.
I media hanno assunto un ruolo specifico e pervasivo decisivo in questo processo, creando un clima di allarme permanente e favorendo sia la stigmatizzazione diffusa che il rinforzo dei comportamenti imposti attraverso una opera di persuasione continua tesa alla normalizzazione di questi. Questa funzione che i media, tranne poche eccezioni, si sono assunti pone una questione centrale di etica dell’informazione più generale.
L’internità degli approcci, delle politiche e degli interventi sulle droghe a questi due grandi filoni di riflessione critica balzati in primo piano con la pandemia sono evidenti, ed anzi non raramente le droghe ne sono state e ne sono ambito precursore e indiziario: quando la complessa esperienza umana dell’uso di sostanze diventa brain disease, che sottrae al soggetto culture, comportamenti, ragioni; quando si detta un’idea autoritaria e morale di cosa sia salute e benessere; quando si normano i comportamenti attraverso il codice penale e le sanzioni.
La biopolitica della pandemia ha più di un argomento in comune con la biopolitica delle droghe. Così come i concetti di “salute” e i relativi modelli operativi che hanno caratterizzato le risposte alla pandemia e il loro impatto e le politiche sulle droghe, basate sul mix criminalizzazione-patologizzazione. Così come le espressioni delle soggettività, individuali e collettive, che dentro la pandemia, dentro le traiettorie del consumo e dentro il consumo nella pandemia hanno ridisegnato in modo resiliente strategie, obiettivi, controllo.
Da questo dialogo critico e riflessivo la Summer School 2020 intende trarre “lezioni apprese” per il cambiamento. In quattro aree tematiche.
L’area dei modelli di consumo, delle strategie individuali, dei processi di apprendimento sociale e delle norme sociali dell’uso di sostanze: le tante ricerche, nazionali e internazionali, sull’impatto della pandemia e del lockdown sulla vita e sui consumi delle persone che usano droghe promosse nei mesi del lockdown – alcune saranno discusse alla Summer – gettano nuova luce sui processi di autoregolazione delle persone che usano sostanze, e al tempo stesso rilanciano una analisi sui fattori, soprattutto di set e setting, che incidono, positivamente o negativamente, sulle capacità di governare il consumo. La straordinarietà del lockdown, con le sue maggiori difficoltà nella vita e nel consumo, consente di vedere meglio quella ordinarietà delle strategie di chi consuma ancora troppo in ombra nella ricerca e negli approcci mainstream. Al contempo, le storie dei consumatori gettano luce anche sui mercati illegali durante la pandemia: al di là di variazioni di prezzi e qualità e di qualche oscillazione nella disponibilità di alcune sostanze nelle prime settimane, il mercato non ha mai cessato di funzionare, una buona lezione se si considera la tenaglia della doppia proibizione, quella del confinamento e quella della legge 309.
L’area dei servizi: non solo se e come hanno saputo reggere l’impatto della pandemia – garantendo i propri utenti e la propria mission – ma quali storici limiti, ritardi, carenze di approccio e modello operativo la pandemia ha rivelato. Il Covid19 è una cartina di tornasole dell’ordinario: è una crisi che ha accelerato alcuni processi potenzialmente creativi, per esempio in termini di flessibilità, nuove tecnologie, abbassamento delle soglie di accesso, attenzione a nuovi bisogni, ma ha anche esasperato i deficit, lasciando servizi chiusi, minor accessibilità, attestandosi non raramente sul minimo quando l’emergenza richiedeva il massimo. Quali sono i modelli che hanno tenuto? Quali quelli che hanno innovato? Il carattere territoriale e quello di servizi essenziali hanno saputo rispondere alla sfida? Il pubblico quanto è riuscito a essere sistema aperto e unitario delle diverse espressioni dei servizi, dai SerD alle Strutture Residenziali accreditate e agli interventi di RdD/LdR, a garantire la continuità delle azioni nella fase dell’emergenza?
Il carcere: dedichiamo una intera sessione al carcere, non solo perché lì si è consumata l’immane tragedia di 13 vite perdute a causa della incapacità di gestione nelle prime settimane della pandemia e il disprezzo dei diritti fondamentali, e perché la reclusione porta con sé, per i suoi stessi dispositivi, il rischio di essere bomba epidemiologica. Ma perché tutte le contraddizioni strutturali tra carcere e salute e tra carcere e diritti umani, e le detenzioni causate dagli effetti della legge sulle droghe (DPR 309/90), sono letteralmente esplose con la pandemia, ponendo un altro drammatico tassello alle evidenze della necessità di liberarsi di questa istituzione totale a partire proprio dal cambio radicale delle legislazioni sulle droghe, che affolla le celle del sistema penitenziario. Insieme, il Covid 19 è stato anche una lente di ingrandimento puntata su limiti e inefficacia del sistema delle alternative alla detenzione, delle strutture e delle progettualità che le dovrebbero supportare, che interrogano non solo l’amministrazione penitenziaria e la magistratura ma anche i servizi pubblici e del privato sociale.
Infine ma non ultima una sessione che abbiamo chiamato di riflessione biopolitica, alla ricerca di una lezione appresa attorno al governo dei corpi, delle vite, delle relazioni umane. La pandemia è un laboratorio formidabile sotto questo profilo, rischioso, illuminante. Una crisi che può segnare un transito epocale. Serve esserne consapevoli, capire cosa significa per noi, per le società e anche per la nostra parte di intervento nella società, di cui siamo responsabili. La riflessione si si dipana in diverse dimensioni, e tutte ci riguardano: libertà, diritti e loro limitazioni in situazioni di crisi; la responsabilità e le norme; le declinazioni di salute e di salute pubblica; la cura e le relazioni di cura nei nuovi scenari; la vita dei singoli e delle società in situazioni di permanente rischio e incertezza.