CITTA’ DEL MESSICO – Se tutti prendessero i farmaci, la lotta all’Aids farebbe passi da gigante. Prima era un’ipotesi, adesso ne è stata data la dimostrazione scientifica, e in un contesto di eccezione come la conferenza mondiale a Città del Messico: dati alla mano, l’accesso da parte di tutti i malati di Hiv alla copertura antiretrovirale farebbe crollare i casi di infezione infezione del 60%.
A dimostrarlo c’è un modello matematico, cuore dello studio condotto in Canada e coordinato dal direttore dell’università British Columbia, Julio Montaner – presidente eletto, fra l’altro, della Società Internazionale per l’Aids. L’ha presentato oggi. Gli scenari che si presentano sono tre: passando dall’attuale 50% di copertura terapeutica al 75%, 90% e 100%, le nuove infezioni potrebbero essere ridotte rispettivamente del 30%, 50% e 60% nei prossimi 25 anni.
Questo risultato fa dei farmaci antiretrovirali un vero e proprio strumento di prevenzione e non più la semplice “cronicizzazione” della malattia. “Sapevamo da tempo – ha osservato Montaner – che l’espansione della copertura con la terapia antiretrovirale avrebbe potuto aiutare a ridurre il numero delle nuove infezioni. Tuttavia siamo stati meravigliati dal numero effettivo delle nuove infezioni che possono essere evitate”.
In sintesi, non abbiamo più scuse, il problema non sono i farmaci ma l’accesso alle cure. Infatti, se la lotta all’Aids prosegue con profitto sul doppio binario di vaccino e farmaci, le vittime colpite dal virus sono nella stragrande maggioranza i poveri dei paesi del Sud del mondo, in particola l’Africa. Qui il potere del farmaco si ferma di fronte a quello dei brevetti delle multinazionali.
Come denunciato da Medici senza frontiere, se da un lato il costo per l’accesso ai farmaci antiretrovirali è troppo elevato per essere sostenuto dai servizi pubblici nazionali dei paesi poveri, dall’altro c’è il problema dei brevetti che coprono i retrovirali: il loro costo proibitivo impedisce ai paesi del Sud del mondo di produrre farmaci generici, imponendo ai malati poveri un impossibile aut-aut: o farmaci “di marca” o niente.
“Se la HAART (hyghly active anti-retroviral therapy – la “tripla terapia”) ha modificato la storia clinica delle persone portatrici d’infezione da HIV laddove è stata introdotta su larga scala, cioè nell’Occidente industrializzato – scrivono sul loro manifesto di intervento per l’accesso ai farmaci gli attivisti di Msf – la sua mancata introduzione in altri contesti, più poveri e popolosi, mantiene quei pazienti allo stadio “preistorico” della lotta alla pandemia”.
Oltre a questo, fra i dati più significativi presentati a Città del Messico uno studio che mostra come l’Aids colpisca sopratutto le donne. Assieme ai bambini, le donne sono la categoria più a rischio. Nel 2007, erano 15,5 milioni le donne che aveva l’Hiv (nel 2001 erano 14,1 milioni) e la tendenza registrata finora prevede che i casi, nelle donne, continueranno ad aumentare ovunque.
Tra le donne, secondo un altro studio, le giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni sono quelle che corrono i rischi maggiori ed essere “monogame e sposate”, sono le conclusioni di un’altra ricerca presentata al convegno, non aiuta: nel 90% dei casi a infettarle è l’uomo – molto più resistente al virus.
“E’ tempo di promuovere la leadership delle donne”, ha detto il direttore esecutivo del Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite (Unfra), Thoraya Obaid . “Per invertire la progressione della diffusione del virus Hiv – ha aggiunto – dobbiamo mettere fine alle disuguaglianze di genere che alimentano la malattia”.
Una delle convinzioni che ha dominato in questi giorni il congresso, di conseguenza, è che la lotta contro l’Aids si sovrappone in modo quasi “fisiologico” alle battaglie per i diritti umani. Come ha sottolineato Ignes Alberdi, direttore esecutivo del Fondo delle Nazioni Unite per le donne (Unifem): “In primo luogo è necessario che le giovani donne imparino a conoscere e a far rispettare i loro diritti”, riflettendo una convinzione che ha dominato il convegno.