La Commissione Europea ha dato il via libera all’introduzione in Irlanda delle etichette che avvertono il consumatore sui rischi legati al consumo di bevande alcoliche. Questo ha accesso un vivace dibattito: sentiamo e leggiamo in ogni dove che il vino è parte della nostra tradizione e che i warning sulle bottiglie del nostro pregiato (e meno pregiato) vino sono un attacco alla nostra identità nazionale e al nostro portafoglio. Tornerò più avanti sulla questione etichette che, confesso, non mi appassiona in modo particolare.
Ciò che invece sta attirando la mia attenzione, come sociologa che da circa trent’anni studia il fenomeno del bere, sono i richiami alle indicazioni dei massimi organismi internazionali che molti paesi hanno tradotto in linee guida che di anno in anno diventano sempre più stringenti. Quelle italiane sulla sana alimentazione ancora indicano come soglia di consumo a basso rischio, due unità alcoliche al giorno per gli uomini tra i 18 e i 65 anni, una unità alcolica al giorno per le donne tra i 18 e i 65 anni, una unità alcolica per tutte le persone sopra i 65 anni e zero al di sotto dei 18 anni e in gravidanza. Per unità alcolica si intendono 12 grammi di alcol puro, all’incirca un bicchiere di vino, una lattina di birra o un drink di aperitivo o superalcolico. Le linee guida più recenti sono canadesi e indicano invece la soglia di 1-2 drink a settimana come rischio minimo per la salute.
E’ ormai consolidato a livello scientifico che il rischio zero non esiste. Affermazione che non intendo assolutamente mettere in discussione perché suffragata da una consolidata letteratura scientifica e perché non sono una ricercatrice in ambito biologico, medico o epidemiologico.
Le mie perplessità stanno invece tutte nella comunicazione del rischio alla popolazione. Quante sono le attività della nostra vita a rischio? Salire in auto la mattina, trascorrere una giornata sulle piste da sci, vivere o lavorare a Torino e respirare ogni giorno l’aria di una delle città più inquinate d’Italia? Se restringiamo l’attenzione agli alimenti, quanti i rischi di sviluppare malattie importanti, come il cancro, legati alle bevande gassate, cibi processati, dolci, carne, in particolare quella rossa? E poi ci sono i cosmetici, con ingredienti potenzialmente cancerogeni. E qui mi fermo perché l’elenco sarebbe troppo lungo.
Possiamo immaginare una società i cui tutti i prodotti siano identificati con warning più o meno terrificanti? La mia auto dovrebbe avvertirmi, oltre che la “strada potrebbe essere ghiacciata”, anche “attenzione potresti morire o ferirti gravemente in un incidente stradale, non esiste il rischio zero alla guida”? E quando il mio treno entra in stazione a Torino, la voce gentile del conduttore dovrebbe salutarmi così: “Ben arrivata a Torino, ricordati di indossare la mascherina oppure respira di meno perché rischi di contrarre il cancro”?
Nel dibattito in corso, gli esperti fanno a gara ad elencare i danni che l’alcol può provocare all’uomo, in una rincorsa a chi fa più citazioni dotte. Sono andata alla fonte a leggerne alcune.
L’affermazione “l’alcol danneggia il cervello” è suffragata dalla citazione di uno recentissimo studio inglese di Daviet e colleghi che ha rilevato gli effetti che il consumo di bevande alcoliche ha sul volume cerebrale e sulla microstruttura della materia bianca. Lo studio in effetti evidenzia come anche un consumo basso o moderato riduce la massa cerebrale, ma nessuno degli autorevoli esperti entra nel dettaglio dei risultati: rispetto al cervello di un astemio di cinquant’anni, chi consuma un bicchiere di bevanda alcolica al giorno ha un cervello invecchiato di 6 mesi, mentre consumare due bicchieri al giorno equivale a invecchiare di due anni. Una differenza significativa si ha con quattro bicchieri al giorno, a cinquant’anni ci si ritrova con un cervello di un/una sessantenne. Dal mio punto di vista questa informazione è cruciale. Quanto per me sono importanti 6 mesi di “invecchiamento” in più? E come si concilia tutto ciò con le evidenze scientifiche sulla riduzione dei rischi di demenza tra i bevitori moderati?
L’altro rischio riguarda la cancerogenicità dell’alcol. E’ ormai assodato che non esista una soglia di sicurezza, qualsiasi consumo presenta elementi di rischio. Ma come trattiamo in termini di comunicazione il rischio infinitesimale? Uno studio del 2020 ha stimato il numero di tumori causati in Europa ogni anno dal consumo basso e moderato di alcol. Due bicchieri di una bevanda alcolica al giorno provocherebbero lo 0,62% di tutti i tumori e il 2,3% di tutti quelli per i quali l’alcol rappresenta un fattore di rischio. E’ un rischio per me accettabile?
Nessuno si interroga però sugli effetti che una ridondanza di messaggi terroristici sui rischi può avere sulla vita sociale e relazionale delle persone. Mangiare e bere non sono azioni che si compiono in un vacuum, ma sono azioni fortemente sociali. Lo sono ancor di più in una società, quale quella italiana, caratterizzata da una cultura del bere orientata alla moderazione (ciò non significa sottovalutare i problemi legati agli eccessi e alla dipendenza) dove le norme informali che regolano il bere o il non bere rappresentano ancora un sapere condiviso.
Nella società contemporanea registriamo un costante aumento dei problemi relazionali e psicologici che spesso sfociano in depressioni, ritiro sociale (il cosiddetto fenomeno degli hikikomori), suicidi, disturbi alimentari, dipendenza da sostanze o da comportamenti (es. gioco d’azzardo). Molti medici, anche internisti, raccontano di pazienti, spesso giovani, che prendendo alla lettera “divieti” di consumo di alcuni alimenti e soprattutto bevande alcoliche dichiarano di rinunciare alla vita sociale, per “non essere indotti in tentazione” e presentano situazioni di ansia. Dobbiamo senz’altro interrogarci sul senso di una vita sociale che ruota intorno all’alcol.
L’essere in salute significa avere un corpo sano, ma soprattutto una psiche sana. Se, come accade nell’attuale dibattito, ci soffermiamo solo sul primo aspetto, tra qualche anno non ci interrogheremo su etichette sì, etichette no, ma su come affrontare l’emergenza dell’esplosione del consumo di psicofarmaci e di tutte le conseguenze che ne derivano. Peraltro tale emergenza è già in corso, ma al momento non sembra destare particolare interesse.
Se prendiamo dunque in considerazione tutti gli aspetti legati al bere, i rischi e il piacere che un bicchiere di vino o un boccale di birra possono dare per il gusto o per il contesto di consumo, non credo siamo in grado a oggi di dire da che parte penda la bilancia. Ciò che possiamo fare però è prendere atto che la bilancia è composta dai due piatti ed evitare di essere strabici e dunque di vederne solo uno.
Ed eccomi arrivata all’ “appassionante” dibattito che sta mobilitando le lobby del mondo della produzione e della difesa del nostro prodotto nazionale di eccellenza, il vino. Personalmente non avrei difficoltà ad accettare alcune avvertenze e penso che neppure molti produttori siano nel loro profondo così contrari. D’altra parte chi esporta negli Stati Uniti da tempo affigge le pregiate bottiglie con i warning richiesti dal governo americano, e il nostro export non sembra averne risentito.
In molti campi, tra cui quello sociale e politico, sarebbe utile e opportuno porsi domande e, come suggerito da Cartesio, avere dubbi. Visto che le evidenze sull’efficacia delle warning labels sono deboli, sarei propensa ad affiancare a etichette informative un messaggio meno terroristico: “se ti fa piacere bere, bevi meno e meglio”. Ma soprattutto a privilegiare iniziative educative e a valorizzare e rafforzare fattori di protezione anche di tipo culturale.