L’ex Czar antidroga dell’ONU Pino Arlacchi oggi su il Fatto Quotidiano ha bollato con i termini “truffa“, “delirante“, “bravata” il referendum sulla cannabis. Da che pulpito arriva la predica: chi nel 1998 rilanciava la guerra alla droga con lo slogan “un mondo senza droghe in 10 anni”, rendendo ancora più feroce la war on drugs, sull’argomento dovrebbe coltivare il silenzio. L’escalation militare della lotta alla droga (il Plan Colombia nasce nel 1999), le eradicazioni forzate e il disastro ambientale e umanitario delle fumigazioni, sono solo alcune delle tragedie per le quali ancor oggi reclamiamo giustizia. Anche perchè, dopo anni in continuità politica e di azione con i proclami arlacchiani, ci ritroviamo con i consumatori di droga che aumentano a ritmo doppio rispetto alla popolazione mondiale e con una quantità e varietà di sostanze illegali che non è mai stata così ampia.
Quello che è certo è che, in quella mezz’ora che ha scritto di aver impegnato per comprendere il testo referendario, Arlacchi è riuscito ad equivocare quasi tutto. Innanzitutto se l’è presa con l’eliminazione del termine “coltiva” perchè “abolisce sic et simpliciter il divieto di coltivare qualunque pianta stupefacente in qualunque ordine di quantità in qualunque posto designato: libertà di coltivare oppio, coca e cannabis.” Peccato che in quella mezz’ora chino sui codici non si sia accorto che nell’art. 73 permangono non solo le fattispecie di produzione e fabbricazione (che per quanto riguarda coca e eroina, rimangono certamente applicabili), ma anche e soprattutto quella norma di chiusura “e comunque illecitamente detiene, al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 75” (l’articolo riferito alle sanzioni amministrative per consumo personale, ndr) che è poi di fatto la condotta che contraddistingue la maggior parte dei quasi 200.000 processi in essere per droghe. Eh sì, perchè chi coltiva detiene anche piante e foglie – che sono inserite nelle tabelle vietate. Oggi gran parte degli accusati di coltivazione sono singoli, non associati a consorzi criminali, che coltivano per uso personale, o al limite per piccolo spaccio. Essendo però la condotta della coltivazione non compresa nelle ipotesi di cui all’art. 75 (che comprendono solo “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene“), i primi restano invinghiati nel processo penale, salvo l’intervento successivo della giurisprudenza (come la decisione a Sezioni Penali Unite della Cassazione sulla non punibilità penale della coltivazione casalinga). I secondi vanno ad affollare il mare di pesci piccoli che riempiono le nostre carceri. Non è tutto. Se Arlacchi, che pure è stato senatore, eurodeputato e vice segretario dell’ONU avesse dedicato altri 5 minuti alla lettura del testo unico sulle droghe, si sarebbe accorto che il quesito non interviene sul divieto di coltivazione non autorizzata, che negli artt. 26 e 28 rimane tale e quale, e che rimanda guardacaso proprio alla fattispecie della fabbricazione di cui all’art. 73. Tutto questo serve per spiegare che la cancellazione del termine “coltiva” dall’articolo 73 ha per il combinato disposto delle norme residuali la depenalizzazione della coltivazione per consumo personale delle piante inserite nelle tabelle e non l’invasione di coltivazioni di coca e papavero da oppio nelle campagna italiane.
Sul secondo punto del referendum, Arlacchi sembra non voler capire: il quesito toglie il carcere per le condotte legate alla cannabis proprio perché si vuole che questa sostanza sia oggetto di un sistema regolato, capace di controllare realmente una sostanza che oggi invece troviamo ad ogni angolo di strada venduta a chiunque a qualsiasi ora. Certo con un referendum non sarà possibile delineare una perfetta regolamentazione, lo sappiamo e lo abbiamo sempre detto. Pur essendo direttamente applicabile la norma risultante dal referendum, se approvato, il legislatore dovrà intervenire. Per quello abbiamo le proposte di legge, depositate da anni in Parlamento, che delineano una serie di quadri giuridici analitici tra cui scegliere.
Per la cannabis quindi vogliamo un sistema regolatorio, nè più nè meno quello di alcol e tabacco, sostanze ben più pericolose ma oggi legali. Al proposito Arlacchi si domanda se consideriamo la cannabis una sostanza pericolosa, ma prima di rispondere dovremmo capire se sia o meno d’accordo con noi e la scienza – vedi Lancet – sui diversi livelli di pericolosità delle sostanze psicotrope legali e illegali.
Infine Arlacchi sostiene che il referendum sia in violazione delle convenzioni. Orbene: le convenzioni non obbligano a vietare la coltivazione (che il referendum depenalizza solo per quanto riguarda il consumo personale, come spiegato sopra), non obbligano a punire con il carcere tutte le condotte, mentre quella associativa rimane punita anche per quanto riguarda la cannabis. Infine non obbligano a sanzionare il consumo. Semmai, come scritto con Marco Perduca la settimana scorsa su il Manifesto, è la legge italiana a violare le altre convenzioni delle Nazioni Unite, quelle sui Diritti Umani in particolare. “Alcuni Stati sono andati oltre quanto è richiesto dai trattati sul controllo delle droghe in termini di criminalizzazione e sanzioni associate, mentre altri hanno dimostrato uno zelo eccessivo nell’applicare le previsioni di criminalizzazione”. La denuncia della commissione ONU sulle detenzioni arbitrarie sembra scritta su misura per l’Italia, che ha una percentuale di detenuti per droghe che è quasi il doppio di quella mondiale. Del resto è la detenzione causata dal DPR 309/90 la principale causa del sovraffollamento delle nostre carceri, e quindi della condanna della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per “trattamenti inumani e degradanti” nelle carceri.
Un’ultima nota, necessaria: il narcotraffico non è mai stato così florido come dopo 60 anni di proibizionismo e guerra alla droga. Sentire quindi associare il quesito referendario al ““papello” di Totà Riina” da chi è stato protagonista del fallimento delle politiche repressive sulle droghe, proprio quelle che hanno permesso il salto di scala globale delle mafie, non è solo ridicolo, è semplicemente offensivo.