Il 30 novembre è apparso in Gazzetta Ufficiale il decreto Lorenzin che regolamenta le coltivazioni, le lavorazioni e gli impieghi terapeutici della Cannabis. Previo “inchino” della Conferenza Stato-Regioni, forse convinta che la cannabis terapeutica vada “calmierata” in quanto cavallo di Troia di una demoniaca cannabis ricreativa; e poco sensibile alle esigenze e ai diritti di tanti pazienti e ai diritti/doveri dei loro curanti, la ministra e Conferenza hanno cestinato le obiezioni e proposte di modifiche di varie parti, tra cui quelle maggiormente competenti in materia, come l’Associazione cannabis terapeutica (Act) e la Società italiana ricerca cannabis (Sirca).
Solo qualche cenno a quanto già detto e ridetto in questa e altre sedi [vedi Il Manifesto, 4/11/2015). Resta la doppia limitazione alle indicazioni terapeutiche, cioè da un lato l’esclusione di diverse patologie (per es. l’epilessia resistente alle altre terapie, il Parkinson, l’Alzheimer), dall’altro, per le indicazioni ammesse, l’autorizzazione all’uso solo dopo il fallimento di altre terapie. Restano l’esclusione di estratti come olii e resine e le condizioni per le preparazioni galeniche che di fatto le mettono “fuori mercato” (v. in proposito www.farmagalenica.it). Restano le riserve sull’efficacia delle terapie (di fatto una svalutazione delle cure palliative) coniugate con un’enfasi sulla gravità degli effetti collaterali, così da sminuire sostanzialmente il reale rapporto beneficio/rischio. Resta il divieto di guida per almeno 24 ore dall’ultimo trattamento: un divieto che pur giustificabile in forma più blanda, cozza sia con la pericolosità relativamente bassa della guida sotto l’effetto della cannabis, a meno di una associazione con alcolici e/o altre droghe “dure” (cfr. la seconda edizione del 6° Libro bianco sulla legge sulle droghe su www.fuoriluogo.it) , sia col fatto che da sempre si ignora il ben documentato rischio della guida sotto l’effetto di psicofarmaci. Infine le disposizioni del decreto nel loro insieme configurano un “farmacoligopolio” sotto il controllo del Ministero della salute e dell’Agenzia per il farmaco (AIFA): sia sulle produzioni dello Stabilimento chimico-farmaceutico militare, l’unico per il momento autorizzato, sia sugli acquisti all’estero. In teoria l’offerta si dice basata sulla domanda espressa dalle aziende sanitarie e dalle regioni, le cui normative in materia sono tuttavia assai eterogenee o addirittura inesistenti (freeweed.it/verso-il-farmacoligopolio-decreto-ministero-salute): altro meccanismo suscettibile di ritardare l’andata a regime dell’operazione, di favorire i frenatori di coda a vocazione proibizionista, di produrre discriminazioni fra i cittadini di diverse parti del Paese.
E allora? I decreti ministeriali sono strumenti normativi fragili (più d’una volta in passato sono caduti tramite le sentenze dei pretori d’assalto), lungi dall’avere forza di legge, particolarmente quando si può sospettare un conflitto coi dettati costituzionali, cioè quelli che riguardano la tutela della salute e la libertà d’impresa. Le possibili azioni mirate a una modifica del decreto Cannabis sono molteplici: per esempio, quelle basate sulla prescrizione off label, cioè al di fuori delle indicazioni ufficialmente approvate, prassi assai frequente da parte di medici e servizi di buona volontà, di per sé legittima salvo l’accresciuta responsabilità del medico in caso di effetti avversi. Se l’estensione di questa prassi dai farmaci “non stupefacenti” a farmaci “stupefacenti” di cui è previsto l’uso medico dovesse dar luogo a sanzioni, allora l’apertura di un fronte giudiziario – magari sino alla Consulta – potrebbe portare a quelle modifiche che paiono irrinunciabili