Appare ormai chiaro che l’indirizzo emerso nella sentenza delle Sezioni Unite n. 28605/2008, cioè l’equazione proposta in forza della quale la coltivazione di cannabis comporta sempre un aumento della sostanza disponibile sul mercato, è sempre più spesso disatteso in quanto lontano dalla realtà che ogni giorno si respira nelle aule di giustizia. Anche se talvolta è stata riproposta (sent. n. 49476/2015 e sent. n. 3037/2016) sempre più spesso tanti tribunali di merito, da ultimo il Tribunale di Ferrara, sezione monocratica, con sentenza di assoluzione ex art. 530 primo comma del codice di procedura penale (siamo in attesa della pubblicazione della motivazione), abbracciano soluzioni di diritto ben diverse, forti anche di nuovi indirizzi giurisprudenziali degli Ermellini (le sentenze nn. 2548 e 5254 del 2016).
Proprio il caso ferrarese offre una interessante occasione di riflessione. Tre studenti universitari erano tratti a giudizio per rispondere della coltivazione di sette piante di marijuana già giunte a maturazione. Dalla istruttoria dibattimentale era emerso come dalle indagini condotte non fossero emersi elementi utili a definire una attività di spaccio. Mancava qualsiasi indice attestante una attività di vendita o cessione di sostanza stupefacente (nessun confezionamento in dosi, niente denaro contante, nessun elenco nominativo di possibili clienti, una vita sociale dei tre imputati assolutamente modesta, nessun collegamento a possibili reti criminali cittadine). Il motivo, semplice, persino banale nella sua esplicitazione era che quei tre ragazzi coltivavano per un uso esclusivamente personale, sottraendosi così al rischio di comprare sostanza stupefacente da spacciatori, esponendosi così a possibili arresti, evitando di spendere – tra l’altro – notevoli somme di denaro.
La realtà fattuale si andava quindi scontrando con il principio giurisprudenziale delle Sezioni Unite che, ancor oggi, suona un po’ troppo come massima etica più che esplicitazione di regola di diritto. Indubbiamente la partita viene giocata sul terreno dei grandi principi del diritto penale, in primis quello di offensività. La stessa Corte Costituzionale invita il giudice ad una lettura non solo in astratto ma anche in concreto di tale principio tanto che non possiamo interpretare l’offensività come funzionante a corrente alternata. In altre parole non possiamo ritenere corretto il relegare l’operatività di tale principio unicamente al caso in cui la pianta difetti di principio attivo. Dobbiamo anzi ritenere che il principio di offensività operi ogniqualvolta il bene giuridico protetto dalla norma non sia aggredito. Il bene giuridico in questione è la salute pubblica ed in difetto di qualsivoglia elemento utile a dimostrare tale aggressione non possiamo che concludere che per una doverosa assoluzione. Questo significa che pensare ad un uso personale del prodotto derivante da una coltivazione è non solo possibile ma anche logico. Certo, il problema risiede nel definire quali sono i parametri utili per determinare tale uso personale che dovranno presumibilmente arricchirsi (in termini di dato ponderale e numero di piante consentite) rispetto a quelli oggi presi in considerazione nel caso della mera detenzione di sostanza stupefacente ad uso personale. Quel che appare non più eludibile è il bisogno di un ripensamento generale della materia sia a fronte di un conflitto interno tra sezioni della Corte di Cassazione che lascia presagire o quantomeno non escludere un prossimo rinvio alle Sezioni Unite, sia per una rinnovata sensibilità della società rispetto al tema.
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