La prima settimana di ottobre il nuovo settimanale The Post Internazionale (Tpi) ha dedicato al referendum sulla cannabis la storia di copertina, intitolata “Ora legale”. Al suo interno, le ragioni del “sì” erano state affidate all’ex magistrato Gherardo Colombo, quelle del “no” al primario di cardiologia al policlinico Gemelli di Roma Antonio Giuseppe Rebuzzi.
Nel leggere l’intervento di quest’ultimo, prima sulla rivista e poi online, la prima cosa che mi sono chiesto è se sia stato un errore del giornalista aggiungere online un “come” che sul cartaceo non c’era. Perché sul settimanale arrivato in edicola la prima frase attribuita a Rebuzzi è: «Come medico sono contrario al referendum, perché la cannabis è un oppiaceo». Affermazione diventata sul sito della testata «la cannabis è come un oppiaceo». Quel «come», ovviamente, cambia molto e non è chiaro se sia stato il medico a cercare di correggere il tiro o il redattore a riportare male la sua affermazione. Fatto sta che dopo l’uscita in edicola del settimanale, Rebuzzi scriveva sulla propria pagina Facebook che «per aver detto che la cannabis è come…» si era attirato un mare di critiche e commenti negativi, lasciando così intuire un errore redazionale. Chiariamo subito che la cannabis ovviamente non è un oppiaceo ma nemmeno «come un oppiaceo”. Perché anche se può dare dipendenza, ciò avviene in percentuali molto minori e meglio gestibili, rispetto a quella di un oppiaceo (potenziale di dipendenza per la cannabis 9%, alcool 15%, cocaina 17%, eroina 23% e tabacco ben 32% secondo uno studio((Anthony, James & Warner, Lynn & Kessler, Ronald. (1994). Comparative Epidemiology of Dependence on Tobacco, Alcohol, Controlled Substances, and Inhalants: Basic Findings From the National Comorbidity Survey. Experimental and Clinical Psychopharmacology. 2. 244-268. 10.1037/1064-1297.2.3.244. https://www.researchgate.net/publication/232545123_Comparative_Epidemiology_of_Dependence_on_Tobacco_Alcohol_Controlled_Substances_and_Inhalants_Basic_Findings_From_the_National_Comorbidity_Survey)) del 1994).
Altro punto degno di nota è che nella versione online di quell’intervento, subito dopo quella frase d’esordio di Rebuzzi, la testata ha inoltre aggiunto come nota del redattore che «per correttezza scientifica: la cannabis non è un oppiaceo e non contiene oppio o suoi derivati. Al massimo si può affermare che il cannabidiolo interagisce con i recettori oppioidi». Ma anche questo non è corretto, in quanto non agisce sugli stessi recettori degli oppioidi ma sul cosiddetto sistema endocannabinoide. Che poi abbiano anche dei punti di contatto, ovvero che uno rafforza l’altro, questo sì. Nel senso che nel nostro organismo c’è un sistema “endorfinico” su cui agisce la morfina e derivati nonché gli “oppiodi endogeni”, cioè prodotti dal nostro organismo, e un sistema endocannabinoide, sul quale agisce la cannabis e appunto le molecole endocannabinoidi prodotte dal nostro corpo. Ma si tratta di sistemi diversi.
Rebuzzi afferma poi che «dal punto di vista cardiovascolare, si è visto che nelle prime ore dopo il consumo di cannabis il rischio di infarto aumenta di ben quattro volte». Pur non citando la fonte, probabilmente si riferisce ad uno studio del 2001 ((Triggering myocardial infarction by marijuana di M. A. Mittleman e altri, https://www.ahajournals.org/doi/full/10.1161/01.CIR.103.23.2805)), spesso citato nel suo trattato sulla cannabis anche dall’ex zar antidroga Giovanni Serpelloni. Secondo la ricerca in questione, il rischio di infarto aumenterebbe in realtà di 4,8 volte.
Ma a cosa corrisponde questo dato? Lo studio di Mittleman e altri riguardava 3.882 pazienti con infarto miocardico acuto (IMA) intervistati subito dopo il ricovero. Di questi, 9 pazienti (lo 0,2%) riportò di aver assunto cannabis nell’ora precedente: a questi numeri corrisponde, appunto, il rischio maggiore di 4,8 volte. Gli autori nella ricerca riportano questo dato, nonostante 3 di questi 9 avevano avuto anche altri fattori trigger (uso di cocaina e/o un rapporto sessuale). Senza questi, con i 6 rimanenti il rischio sarebbe sceso a 3,2. Ma poniamo che il dato sia 4,8: su 3.882 pazienti con IMA ce ne sono 9 in cui c’è questa associazione, perché comunque non si può affermare sia una causa/effetto. Per completezza e correttezza, però, ricordiamo anche gli altri fattori di rischio riportati dagli stessi ricercatori: se quello della cannabis è 4,8 ci sono poi lo stress sul lavoro (rischio maggiore di 9 volte), un pasto pesante (7), l’attività fisica intensa (5,9-6,1) o la rabbia (2,3-9). Quindi, sempre secondo le ricerche di Mittleman e altri, è molto più rischioso litigare sul lavoro, magari dopo aver mangiato tanto, che non aver usato cannabis (tranquilli, fare sesso aumenta il rischio solo fino a 3,7…).
D’altra parte, un recente studio epidemiologico ((Jivanji D, Mangosing M, Mahoney S P, et al. (December 03, 2020) Association Between Marijuana Use and Cardiovascular Disease in US Adults. Cureus 12(12): e11868. doi:10.7759/cureus.11868 https://www.cureus.com/articles/45502-association-between-marijuana-use-and-cardiovascular-disease-in-us-adults)) ha concluso che non vi è alcun legame con l’uso di marijuana e un aumento delle malattie cardiovascolari. Per inciso, un’altra indagine epidemiologica ((Drug Alcohol Rev. 2018 Nov;37(7):897-902. The relationship between cannabis use and diabetes: Results from the National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions III. S Imtiaz, J Rehm https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30288813/)) conclude che vi sarebbe una diminuzione della probabilità di diabete per i consumatori di cannabis rispetto ai non consumatori; visto l’alta incidenza di questa malattia e le sue complicanze cardiovascolari, se i dati fossero confermati si potrebbe pensare a un “bilancio cardiaco” a favore della cannabis.
La conclusione di Rebuzzi al suo “no” è la seguente: «Con la legalizzazione, secondo me, aumenterebbe in modo incontrollato il numero di pazienti con queste patologie. Ecco, mi sembra abbastanza per essere contro questo referendum”. Tra le patologie da lui citate, la “miopatia dilatativa, per la quale si ricorre a un trapianto di cuore nel 90 per cento dei casi». Su questo il dibattito è aperto, anche perché pur essendoci degli studi non sono per nulla conclusivi (pur con il dovuto rispetto al principio di precauzione, secondo il quale perlomeno le persone predisposte o ad alto rischio di problemi cardiovascolari, come infarto o ictus, possono essere a rischio elevato per l’uso di cannabis). Di solito il problema che i cardiologi tendono a sottolineare sulla miocardiopatia è che trattandosi di un danno che di solito avviene con gli anni è naturalmente ancora più difficile stabilire un nesso causa/effetto. Già non è facile per qualcosa che avviene nell’ora successiva, figuriamoci se si riesce a valutare un arco temporale di anni. L’alcol, ad esempio, di sicuro è tra i fattori tossici e una causa di miocardiopatia. Questo rischio è ormai chiaro e assodato da decenni. E parliamo di una sostanza largamente venduta, diffusa e consumata.