Abbiamo ampiamente scritto su questa rubrica del coacervo panpenalistico del Disegno di legge Sicurezza ma vale la pena approfondire i contenuti dell’art. 18, che inserisce nella legge 242/16 il divieto di produzione e vendita delle infiorescenze di canapa a basso contenuto di THC, la cosiddetta cannabis light.
Dopo l’approvazione alla Camera il testo è all’esame del Senato, dove sono in corso le audizioni nelle commissioni congiunte Affari Costituzionale e Giustizia, e presto inizierà il confronto sugli emendamenti. Le associazioni del settore si sono date appuntamento martedì scorso, su invito della sen. Licheri (M5S), ed erano presenti le principali associazioni di produttori, da Canapa Sativa Italia a Imprenditori Canapa Italia oltre a Sardinia Cannabis, Resilienza Italia Onlus e Federcanapa, e infine alcune associazioni di categoria come Cia, Cna, Copagri e Confagricoltura. La Coldiretti, la cui contiguità con il Governo potrebbe essere d’aiuto, era assente ma ha lanciato un appello per il ritiro della norma.
Il bando dei fiori di canapa rivela un approccio ideologico e irrazionale al diritto che finisce per diventare paradossale. Si introduce l’assurdo giuridico di colpire con sanzioni draconiane previste per le sostanze psicotrope anche chi produce o usa infiorescenze senza effetti psicoattivi, come è per la cannabis light. In barba ai principi di proporzionalità, ragionevolezza e offensività propri della nostra cultura giuridica.
Per farlo si rimanda alle disposizioni del Testo unico sulle droghe, creando un loop normativo e giurisprudenziale. L’art. 26 del TU, in accordo con le Convenzioni ONU sugli Stupefacenti, esclude esplicitamente dal divieto di coltivazione la canapa industriale per gli usi “consentiti dalla normativa dell’Unione europea”. L’UE a sua volta consente l’uso di tutte le parti delle piante coltivate dai semi presenti nel suo catalogo. “Nessuno Stato membro può impedire la libera circolazione di prodotti legalmente prodotti in un altro Stato membro” ha ribadito Lorenza Romanese, direttrice dell’European Industrial Hemp Association, evidenziando come il divieto di produzione in Italia non potrà impedire l’importazione dagli altri paesi dell’UE. La giurisprudenza afferma poi che le previsioni del Testo Unico non sono applicabili nel caso che i derivati della cannabis siano “in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”. La soglia drogante è ormai unanimemente fissata allo 0,5%, ovvero quasi tre volte la quantità di THC massima prevista dalla legge 242/16 (0,2%).
La furia iconoclasta della destra è completata dal decreto Schillaci bis, che ha inserito le preparazioni per uso orale di CBD nella tabella dei medicinali stupefacenti: sospeso per due volte dal Tar del Lazio, andrà al giudizio di merito a dicembre. Assoggettando un preparato non stupefacente alle tabelle dei farmaci psicotropi, in contrasto con le indicazioni dell’Oms e la giurisprudenza europea, si vuole regalare il mercato all’industria farmaceutica. Quando invece sarebbe possibile regolamentare i prodotti che possono essere venduti come integratori o come farmaci, a secondo della percentuale di principio attivo e garantendo la sicurezza dei consumatori.
Torna così la pianta del demonio. Anche se è la stessa pianta cara all’autarchia del ventennio, che intorno ad essa era stata costruita la narrazione del regime. La stessa canapa coltivata per millenni in Italia, capace di disegnare il territorio ed essere illustrata sin dalla pittura rinascimentale.
L’obiettivo, perseguito ossessivamente dal sottosegretario Mantovano e dal suo Dipartimento Antidroga, è impedire alla filiera italiana di usare la parte più preziosa della pianta, il fiore, indispensabile per la produzione farmaceutica, cosmetica e alimentare. Si mette così scientemente in crisi la redditività di 3000 aziende che nella piena legalità oggi occupano 30.000 lavoratori, perlopiù giovani.
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