Condannando l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di tortura), la Corte europea dei diritti umani chiama tutti i poteri dello Stato a risolvere un sovraffollamento carcerario ormai endemico. Silente il Parlamento – che addirittura non ha ancora discusso il relativo messaggio del Quirinale – sono i giudici a tentare soluzioni inedite.
I primi a farlo sono stati i tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano, chiamando in causa la Corte costituzionale. Nelle loro ordinanze si dice apertamente che una pena scontata in celle colme fino all’inverosimile non ha finalità rieducativa, vìola il divieto di trattamenti inumani, lede la dignità umana del detenuto. Costituzionalmente, è una «non-pena». Servirebbe un rimedio estremo: la facoltà per il giudice di differirne l’esecuzione finché non si presentino le condizioni detentive per poterla eseguire legalmente. Come già accade in Germania, in California, nel nord Europa. A tal fine ne sollecitano l’introduzione all’art. 147 c.p., per il tramite di un intervento additivo della Consulta.
Si sapeva che la richiesta era stata respinta. Ora che la sentenza costituzionale n. 279 è stata pubblicata, ne conosciamo le motivazioni, di assoluto rilievo.
La sentenza riconosce «l’effettiva sussistenza» di quanto denunciato dai giudici. Il sovraffollamento carcerario, per la Corte, è un «fatto notorio», un problema «strutturale e sistemico», idoneo a «pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale». La voce severa dei giudici costituzionali va così ad aggiungersi a quelle della Corte di Strasburgo e del Capo dello Stato, entrambe amplificate nella sentenza in esame. Come non sentirle?
Di più. La condizione di sovraffollamento negli istituti di pena è di tale gravità da rendere «necessaria la sollecita introduzione di misure specificamente mirate a farla cessare». Il riferimento è da intendersi ad una legge di amnistia e indulto, giacché altri interventi ordinamentali richiederebbero tempo «mentre l’attuale situazione non può protrarsi ulteriormente».
Già raccomandata nel messaggio del Quirinale, è un’indicazione di buon senso che si oppone al senso comune delle forze politiche ostile ad atti di clemenza generale. Eppure è la Costituzione “più bella del mondo” a contemplarli tra gli strumenti di politica criminale. E la condanna a Strasburgo ha fatto scattare il cronometro: dobbiamo recuperare una legalità dietro le sbarre a breve, entro il 28 maggio 2014. Deflazionare le carceri e le aule di giustizia, dunque, è la prima cosa da fare.
Il rimedio preventivo richiesto dai giudici remittenti, invece, viene negato. Ma solo per ragioni processuali. La Corte, infatti, non può introdurre una regola scelta tra una pluralità di soluzioni normative: l’opzione non sarebbe costituzionale ma politica, dunque è riservata al legislatore. E’ quanto accade nel caso in esame, dove il differimento facoltativo della pena non esaurisce i rimedi possibili, che la sentenza esemplifica.
Il Parlamento è però avvisato: in tema, «l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa» non sarà tollerato. Suggerirei ai giudici di sorveglianza di attendere la data del 28 maggio 2014. Superata inutilmente, ripropongano la medesima quaestio, fiduciosi nella disponibilità della Corte a sanzionare l’anomia legislativa. Come in natura, così anche nella tutela dei diritti non esiste il vuoto. Perché se i diritti vanno tutelati per evitare la catastrofe, ci sarà sempre un giudice a Berlino cui chiedere giustizia. Anche per i troppi detenuti costretti a vivere in formicai di sbarre e cemento armato.