«Aldol darkene triptizol/ Noan anasclerol» cantava Samuel nel brano Depre. L’elenco di psicofarmaci fluiva su una base con accenti allegri e i Subsonica ci mostravano alcune facce dell’uso di psicofarmaci: mezzo di fuga dal malessere, strumento per volare, lente che rende visibile la mancanza di una rete.
«Paliperidone, Apipipraziolo, Trazodone» elencati in apertura del secondo capoverso dell’inchiesta di Luca Rondi Il carcere sedato: più di due milioni di euro all’anno spesi in psicoformaci, in Altraeconomia, n. 263, aprono numerosi interrogativi.
L’inchiesta presenta una serie di dati relativi alla spesa farmaceutica in 15 istituti penitenziari italiani, ponendo l’accento sulla sproporzione nella spesa pro-capite in psicofarmaci, che risulta di gran lunga superiore rispetto all’esterno, soprattutto per quanto riguarda gli antipsicotici, che rappresentano il 60% della spesa in psicofarmaci in carcere, per una media pro-capite circa 5 volte superiore a quella della popolazione libera ed inoltre in netto aumento negli ultimi 4 anni.
Dati che suscitano allarme e che interrogano – come emerge dai commenti degli esperti interpellati da Rondi– sulla presenza di «un disagio diffuso, rispetto a cui la soluzione più immediata e semplice è quella farmacologica» (Michele Miravalle – Antigone), e sul possibile uso degli antipsicotici come strumento di controllo che porta a chiedersi se «stiamo sedando dei disturbi o dei disturbati» (Fabrizio Starace – DSM di Modena e Siep). L’accento è posto su due principali assi di problematicità: la presenza in carcere di un disagio diffuso – che, come Rondi chiarisce, non è conseguenza della chiusura degli OPG – e l’uso delle sostanze con funzione disciplinare.
La questione del consumo di psicofarmaci può aprire ad ulteriori domande e alla possibilità di uno sguardo inedito se – come fa Luca Sterchele nel suo volume Il carcere invisibile (Meltemi, 2021) – ricordiamo che la somministrazione di farmaci non vede come soggetti attivi soltanto il personale sanitario ed eventualmente quello di sicurezza, ma anche le persone detenute. L’osservazione partecipante di Sterchele inquadra le dinamiche di negoziazione tra detenuti, medici e agenti, a fronte di una richiesta, anche insistente, da parte della popolazione detenuta.
Prendendo in considerazione i bisogni e la prospettiva delle persone detenute, si scopre che la terapia assume la funzione di aiuto, di sollievo, per permettere di affrontare una realtà difficile e angosciante, una funzione anche di sedativo, talvolta voluta da chi la assume. Il farmaco può avere funzione di intrattenimento, in un luogo dove la noia può farla da padrona, o di sostituto per altre sostanze che sono vietate e non reperibili, in un ambiente dominato da infantilizzazione e controllo, o ancora merce di scambio in un luogo di deprivazioni.
Così, da questa prospettiva, si può ricordare la funzione di supporto che lo psicofarmaco può svolgere facendo luce sul malessere che l’istituzione produce : cercando di sfuggire dalle demonizzazioni e dal “calvinismo chimico”, mantenendo al tempo stesso la critica a una cura appiattita sulla sola farmacologia. Si può osservare la carenza di una rete di sostegno, a causa non solo delle poche ore dei professionisti della salute mentale, di cui tratta l’inchiesta, ma anche delle limitazioni dei rapporti con gli affetti e della negazione della sessualità.
La salute mentale oltrepassa gli steccati sanitari delle diagnosi e delle terapie. Sulla salute mentale, in carcere più che fuori, si giocano conflitti di funzioni, prospettive e approcci, tra bisogni e risposte. In un quadro complesso che il progetto della Società della Ragione, finanziato dall’8×1000 Chiesa Valdese, Salute mentale in carcere, che sarà a breve avviato a Udine, Rebibbia e Prato, cercherà di indagare.