Onestamente quanto tardivamente Andrea Orlando, in occasione della Festa della polizia penitenziaria, ha ammesso l’errore di non aver portato a compimento la riforma dell’ordinamento penitenziario. Avrebbe dovuto farlo, il Governo Gentiloni, nel febbraio scorso, all’indomani dei pareri favorevoli delle Camere, se solo non avesse temuto di perdere quel che aveva già perso: il voto dei penultimi, solleticati dagli imprenditori politici della paura alla guerra incivile contro gli ultimi, quelli che stanno in carcere, quelli che arrivano dal mare. Avrebbe potuto farlo anche nelle scorse settimane, se solo si fosse sottratto alla vergognosa melina istituzionale che ha tenuto bloccato il Parlamento per due mesi, in attesa della formazione di un Governo, come se il primo dipendesse dal secondo e non il contrario. Nel corso della Assemblea nazionale del PD Orlando ha accusato Renzi e Gentiloni del fallimento. Ma tant’è, così è andata, e bisognerà ricordarsene quando tornerà l’occasione di scegliere tra la scommessa di un riformismo radicale e la prudenza dei minimi ritocchi.
Intanto, però, si deve fare i conti con il contratto sottoscritto da Di Maio e Salvini, nelle loro funzioni di leader della nuova maggioranza di governo. Sapevamo dell’opposizione mantenuta fino alla fine dai 5 Stelle e dalla Lega alle pur misurate proposte del Governo Gentiloni in materia di carcere. E d’altro canto se il Movimento ha tra i suoi tratti costitutivi la confusione della giustizia sociale con la giustizia penale, la Lega di Matteo Salvini è da tempo il principale imprenditore della paura sulla scena politica italiana. Dunque ci si poteva aspettare il peggio, e il peggio è arrivato: la riforma penitenziaria non è solo abortita, ma se ne promette una riscrittura che garantisca la rivisitazione di tutte le misure premiali (nel senso, immaginiamo, della limitazione o abrogazione di qualsiasi beneficio o alternativa al carcere). Ma questo è solo l’approdo finale di un programma che si apre con la declamazione della “difesa sempre legittima”, senza più vincoli di proporzionalità con l’offesa minacciata, e che prosegue con l’inasprimento delle pene, la revoca di vecchie depenalizzazioni, l’abrogazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto o dell’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie. Inevitabilmente, l’approdo non può che essere quello di un bel “piano per l’edilizia penitenziaria”. Per non dire dell’iperbolico proposito di chiudere in centri di detenzione tutti gli immigrati irregolari, stimati in 500mila persone: non basteranno gli stadi, come nella memoria più buia dei Paesi latinoamericani.
Non sappiamo in Germania, ma in Italia un programma di governo è un elenco di propositi più o meno generici di cui alcuni (forse) saranno attuati, (molti) altri resteranno sulla carta: a decidere sarà la contingenza e le scelte che, solo allora, faranno le forze politiche. E la forma contrattuale dell’accordo tra Lega e 5 Stelle non cambierà le regole non scritte della politica. Dunque, molto di quello che oggi viene proposto non sarà messo in pratica. Ma ciò che inquieta non è solo il punto di incontro giustizialista tra forze politiche che si rappresentavano così diverse tra loro, ma il fatto che questo punto di incontro rischia di essere ciò che di questo contratto potrà più facilmente essere messo in pratica. Non sarà facile tradurre in legge e atti concreti le proposte in materia economico-sociale, e dunque l’alleanza si cementerà nelle misure carcerofile e contro i migranti, fino a quando le carceri non saranno di nuovo piene come uova e i contraenti scopriranno che le nuove, in Italia, non si fanno in meno di trent’anni. Nelle carceri, nei tribunali e nei centri per stranieri toccherà reagire e resistere, in nome dei diritti umani e della Costituzione.