Com’è possibile che la Carta costituzionale possa essere disattesa, offesa, lesa dalla persistenza nell’ordinamento dell’istituzione Casa lavoro?
Questa domanda, con cui l’Arcivescovo di Chieti Bruno Forte chiude il confronto sulle misure di sicurezza per imputabili con il giudice costituzionale Giovanni Amoroso, durante la puntata del 16 aprile 2021 di Incontri – il podcast della Libreria della Corte costituzionale – ha sollecitato la riflessione di un gruppo di lavoro ad hoc.
L’incontro, organizzato nella data simbolica del 91esimo anniversario del codice penale Rocco (promulgato proprio il 19 ottobre 1930), è servito per discutere e perfezionare una proposta di legge avente ad oggetto l’abolizione delle misure di sicurezza per imputabili, già presentata, in una sua prima stesura, dalla Società della Ragione nel seminario “Salute mentale e folli rei. Continua la discussione”, che si è tenuto a Treppo Carnico dal 17 al 19 settembre.
Cosa siano le misure di sicurezza per imputabili lo mette bene in luce Forte, in quello stesso intervento del 16 aprile, definendole «una realtà che è stata istituita in epoca fascista e che non è mai stata abrogata […] in cui persone che hanno già scontato la pena che è stata loro comminata e sono ritenute socialmente pericolose devono continuare a vivere, praticamente in condizione di detenzione, fino a quando non abbiano trovato un lavoro da esercitare e un’abitazione che le accolga».
In sostanza, si tratta di misure applicate sulla base di un giudizio che non verte sul reato commesso ma sull’etichettamento del suo autore come “delinquente abituale”, “professionale” o “per tendenza” e “socialmente pericoloso”. Misure illiberali, che raddoppiano la sanzione, sottoponendo ad un di più di detenzione persone che in prevalenza provengono da contesti di disagio.
Sono duplicazioni di pena con una fine non determinata ma legata al raggiungimento di un obiettivo di reinserimento (spesso l’ottenimento di un lavoro o di una casa) pressoché irrealizzabile all’interno di un’istituzione che è, a tutti gli effetti, un carcere e spesso molto distante dal territorio dove la persona reclusa ha o aveva i suoi legami (familiari, relazionali, lavorativi, etc…).
Come mostra la ricerca condotta dal Garante dei detenuti della Toscana nel 2019 sugli internati nella casa di lavoro di Vasto, la gran parte degli ingressi e delle proroghe delle misure è dovuta alla mancanza di alloggio e di lavoro, all’uso di sostanze, a fattori di precarietà che vengono tradotti nella prognosi di pericolosità sociale. Così, la misura di sicurezza finisce per essere – come la definiva Sandro Margara – una «detenzione sociale», una privazione della libertà, applicata alle fasce più vulnerabili e marginali.
La proposta di legge mira a superare questo sistema, partendo innanzitutto dalla cancellazione delle figure di stampo criminologico-positivista delineate dal codice Rocco: “il delinquente abituale”, “professionale” o “per tendenza”.
Il testo inoltre propone di abrogare le misure di sicurezza detentive (casa lavoro e colonia agricola) e riforma la misura non detentiva della libertà vigilata, prendendo ispirazione dalle proposte del Tavolo 11 degli Stati generali sull’esecuzione penale e qualificando la misura come funzionale alla “promozione della libertà”, attraverso l’offerta di opportunità (casa, lavoro, studio). Viene sottoposta al principio di territorialità della sua esecuzione, prevedendo che il soggetto destinatario della misura possa essere supportato dalla relazione con i servizi sociali e sanitari.
A fronte di questa proposta, che riguarda (relativamente) poche persone (334 a gennaio 2021), ma che affronta una fondamentale questione di principio, non resta che capire se chi deve fare le leggi riterrà degna di attenzione quella piccola fetta di popolazione che abita a tempo indeterminato le cosiddette case lavoro.