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Pochi giorni fa, diciannove personalità politiche mondiali (fra cui l’ex segretario dell’Onu, Kofi Annan) hanno denunciato in un articolato rapporto il fallimento della war on drugs. Lo scalpore che n’è seguito a livello internazionale (fatto salvo il silenzio mediatico nella provincia italiana) ha già dato una salutare scossa a quella “inerzia” politica che i diciannove saggi paventano come pericolo. Pochi però hanno notato che fra i primi firmatari del documento spiccano i nomi degli ex presidenti della Colombia, del Messico, del Brasile (Gaviria, Zedillo, Cardoso): gli stessi che nel 2009 hanno messo sotto accusa la guerra alla droga per le devastazioni (dei territori, del tessuto civile, delle istituzioni locali) prodotte in America Latina. Negli anni novanta, il vento pacificatore ha soffiato dall’Europa della riduzione del danno. Negli anni duemila, l’onda lunga della riforma si è spostata nei campi di battaglia dei paesi cosiddetti produttori, dove la“guerra alla droga” non ha solo una connotazione ideologica. E’ un salto politico che merita attenzione. Non a caso il rapporto dei tre ex presidenti s’intitolava “droghe e democrazia”. In quei paesi, la conquista dell’autonomia politica e lo sviluppo democratico sono strettamente intrecciati all’evoluzione della politica della droga. L’obiettivo è di liberarsi di quel “imperialismo del controllo internazionale della droga” (come lo definiscono i saggi mondiali) che ha giocato un ruolo primario nel rendere il Sud America il “cortile di casa” degli Stati Uniti. Basti pensare al ruolo diretto dei “consiglieri” militari statunitensi nel conflitto colombiano; o al più sofisticato sistema di certificazione inaugurato dagli Usa nel 1984, che permette di colpire con pesanti sanzioni i paesi che, a insindacabile giudizio statunitense, non combatterebbero con sufficiente intransigenza la produzione e il traffico di droga. Simbolicamente, il primo atto formale di denuncia delle convenzioni internazionali proviene dal presidente della Bolivia, l’ex cocalero Evo Morales, che ha chiesto di eliminare la foglia di coca dalle sostanze proibite.
Il rapporto di Kofi Annan e altri contiene un’altra particolarità interessante: ben oltre la denuncia dei danni del proibizionismo, esso delinea un nuovo assetto istituzionale internazionale sulla droga. Non va dimenticato che le politiche sulla droga nascono storicamente dalla dimensione globale, per estendersi e imporsi a livello locale (un altro aspetto dell’imperialismo già citato). Ciò spiega  l’incredibile conservatorismo, se non il vero e proprio immobilismo, delle politiche antidroga: il cardine è ancora la convenzione unica del 1961! Questa origine antidemocratica rende il controllo antidroga simile ad un regime, che vede in qualsiasi cambiamento una minaccia alla propria sopravvivenza. Tuttavia – propongono i diciannove saggi- all’interno della stessa machinery istituzionale delle Nazioni Unite possiamo oggi trovare la chiave del rinnovamento. Basta prendere sul serio la Convenzione sui diritti umani, palesemente violata da quei paesi che applicano pene sproporzionate per i reati di droga, fino alla pena di morte. E l’organismo di controllo sulle convenzioni (lo Incb) dovrebbe alzare la voce contro i paesi che calpestano il diritto alla vita e alla salute in nome della repressione, invece di prendersela contro quelli “morbidi” (come ha sempre fatto puntualmente finora). Le droghe devono diventare un problema di salute sotto l’egida dell’ Oms, più che dell’agenzia delle “droghe e del crimine” (Unodc).
Nel 1998, Kofi Annan era a capo dell’Onu, quando l’Assemblea generale rilanciò la guerra alla droga al grido di Possiamo farcela. Per ricredersi, non è mai troppo tardi.