«Dal 18 giugno 1971, quando Nixon l’annunciò pubblicamente per la prima volta, la War On Drugs è stata sempre all’offensiva, fra interventi militari, arresti sempre più numerosi, e sentenze inusitate. Dopo 50 anni e svariate amministrazioni Usa, non si vede alcun segno di vittoria. … L’era proibizionista deve finire. La depenalizzazione dell’uso personale, insieme a maggiori risorse per il trattamento e la riduzione del danno, con ampie iniziative per ridurre la povertà e garantire l’accesso ai servi sanitari, sono i passi necessari per trasformare la vita di chi ne è vittima. Una trasformazione che stavolta merita una battaglia».
Questo il succo dell’editoriale apparso sulla pubblicazione online dedicata all’HIV del gruppo The Lancet, la prestigiosa testata scientifica fondata nel 1823 dal chirurgo e parlamentare londinese Thomas Wakley.
Gli fa eco Michael Pollan in un intervento sul New York Times in cui sintetizza le tesi proposte nel suo libro fresco di stampa, This Is Your Mind On Plants (di cui ci occuperemo in dettaglio quanto prima), a tre anni dal bestseller internazionale su analoghe questioni, How To Change Your Mind, di cui è in lavorazione la mini-serie per Netflix.
«Dopo mezzo secolo a fare la guerra alla droga, gli americani sembrano pronti a chiedere la pace. Le elezioni del 2020 hanno fornito numerose prove del fatto che gli elettori hanno superato i politici nel riconoscere sia i fallimenti della War On Drugs sia il potenziale di alcune sostanze illecite come potenti strumenti di guarigione», scrive fra l’altro il noto giornalista e docente newyorkese trapiantato a Berkeley.
Sono soltanto le ultime due fonti anglofone, entrambe autorevoli e assai seguite nei rispettivi ambiti, che ribadiscono un concetto ormai chiaro: è ora di voltare pagina e fare pace con le sostanze illegali. A partire dagli Stati Uniti, che hanno avviato questa scellerata “guerra” e proseguendo nel resto del mondo. Un passo d’altronde già intrapreso da un numero sempre più vasto di cittadini e applicato da alcune istituzioni preposte, dai tanti Stati degli Usa al Portogallo al Canada. Ma ovviamente non basta ancora.
Non a caso insiste l’editoriale di The Lancet: «Con la nuova amministrazione Biden c’è la possibilità di un nuovo approccio alla War On Drugs. Ma le sue posizioni sulla questione non sembrano promettenti e i segnali iniziali sono contrastanti. Le priorità incoraggianti del primo anno di Biden includono l’ampliamento ai trattamenti comprovati e delle pratiche di riduzione del danno e un maggior accesso a servizi di supporto. Occorre tuttavia cambiare le direttive politiche sia a livello locale che federale».
Dal canto suo, Michael Pollan avvia la conversazione sui possibili scenari della “Peace On Drugs”, ponendosi alcune domande chiave, tipo: «Come poter far entrare queste potenti sostanze nella nostra società e nella nostra vita in modo da minimizzarne i rischi e usarle nella maniera più costruttiva possibile?». E azzardando qualche risposta, suggerisce che per gli psichedelici, ad esempio, non può funzionare il modello dell’attuale legalizzazione locale (in Usa) della cannabis, in libera vendita (ai maggiorenni) nei dispensari e online. Va invece preferito invece l’approccio più controllato, leggasi terapeutico: «psilocibina e MDMA possono entrare nella società tramite il processo, già in corso, dell’approvazione da parte della Food and Drug Administration, e nel giro di qualche anno saranno disposinbili come coadiuvanti della psicoterapia» (sempre in Usa).
Mentre per chi invece vuole usarli per la crescita personale, per stimolare la creatività o per la ricerca spirituale, non resta che ricodificare certi rituali dei tempi andati oppure applicati dalle popolazioni indigene, dal peyote ai funghetti. Oltre che prestare molta cura al set e setting – oltre che, aggiungiamo noi, a preparazione e integrazione successiva. Tutti elementi cruciali delle esperienze enteogene, come già emerso nella prima ondata psichedelica occidentale degli anni ’60-70, le cui sperimentazioni vennero bruscamente interrotte proprio dall’avvio delle politiche proibizioniste.
E per le cosidette “droghe pesanti”? Qui il discorso si fa necessariamente più complesso, ma anche Pollan sottolinea una realtà di fatto ma ignota (anzi volutamente ignorata) al mainstream: molti ne fanno uso pur conducendo una vita normale (lavoro, affetti, socialità). E per la ridotta percentuale che ne diventa dipendente, si tratta «più che di una malattia di un sintomo dovuto a traumi, isolamento sociale, depressione o stress economico. Come suggerisce la geografia dell’attuale crisi degli oppiacei e delle metamfetamine, le prospettive economiche e ambientali svolgono un ruolo primario nel percorso verso la dipendenza».
D’altronde il pezzo di The Lancet conferma che, proprio grazie alla diffusione globale del proibizionismo, chi inietta queste sostanze si trova a subire un incredibile livello di stigma e criminalizzazione in tutto il mondo. Non solo: «Circa uno su otto individui che iniettano oggi vive con l’HIV, e costoro hanno 29 volte maggiori probabilità di contrarre l’HIV rispetto a chi non inietta». Eppure gli strumenti per prevenire simili danni umani e sociali sono a portata di mano, per lo meno nel mondo occidentale: scambio siringhe, stanze del consumo, assistenza sanitaria, miglioramento delle condizioni economico-sociali su larga scala. Ma, di nuovo, occorre prima di tutto liberarsi una volta per tutte del proibizionismo e dei relativi effetti diretti e indiretti.
Incluso quello dell’abuso, dove svolge un ruolo primario l’informazione chiara e precisa, invece offuscata o negata in questo clima punitivo. Anzi , in tal senso non abbiamo ancora trovato compromessi sociali soddisfacenti neppure con alcol e tabacco, pur se regolamentati da tempo. In definitiva, non si vuole prendere atto che gli esseri umani hanno sempre usato e sempre useranno sostanze che alterano la coscienza, lecite o illecite che siano.
È quindi urgente più che mai “negoziare la pace” con chi ne fa o ne farà uso a qualsiasi titolo o circostanza. Cosa che, è bene rimarcarlo, non dipende solo dalla volontà politica di cambiamento, o anzi dalla sua assenza, bensì dalla messa a fuoco di un approccio innovativo e partecipato, in sintonia con le fluide dinamiche del XXI secolo.
Emerge così l’imprenscindibilità di una convergenza a tutto tondo tra scienza e politica, cultura e imprenditoria. Non si può non essere d’accordo con la conclusione di Pollan. Soltanto incalzando contemporaneamente su tutti i fronti, e coinvolgendo tutti i soggetti della società civile a vario titolo interessati, ci si potrà davvero buttare alle spalle la War On Drugs – per passare a un approccio più sensato, umano e articolato all’intera questione “droghe”.