Detenuti in piazza, solo che si tratta dei direttori delle carceri che però un po’ detenuti si sentono anche loro: «Entriamo in carcere alle otto di mattina e usciamo alle nove di sera, praticamente più di metà della nostra vita trascorre dietro le sbarre», racconta Carmelo Cantone che dirige il nuovo complesso di Rebibbia. Ma fosse solo questo il problema, si tratterebbe semplicemente di superlavoro. Il problema, anzi i problemi, sono molto più grossi e più gravi, non a caso hanno deciso di protestare ieri mattina davanti al ministero della Funzione pubblica (quello di Renato Brunetta).
Erano un centinaio, arrivati da tutt’Italia, magliette alla spagnola con la scritta sono indigNato, vestiti di nero nel senso del lutto: «Diamo sicurezza ma non abbiamo sicurezza» sui cartelli. Vogliono un contratto per loro che finora non hanno mai avuto essendo equiparati ai funzionari di polizia. E per questo hanno ottenuto l’apertura di un tavolo a metà luglio. Ma si sa, un tavolo non si nega a nessuno, quindi lasciano la piazza non proprio soddisfatti. Prima però raccontano la loro vita, o meglio la vita dei loro detenuti. Costretti come si sa a vivere (vivere?) ammucchiati in celle costruite per contenere la metà di quelli che ci stanno. A Spoleto per esempio, spiega il direttore Leo Giacobbe, abbiamo 700 persone quando il massimo consentito sarebbe di 350: «Siamo stati costretti a riempire le sale giochi di detenuti, stipati in dodici, tredici con un solo bagno, finestre minuscole…».
La soluzione, l’unica secondo Giacobbe, sarebbe «un’amnistia che consenta al sistema di ripartire rendendo tutto più umano e razionale. E’ demagogico promettere nuove carceri che tanto non si possono fare perché mancano soldi e personale». Per non parlare di quelli chegestiscono le pene alternative al carcere, come Rita Andreucci e Vincenzo Petrella: «Da dieci anni non riceviamo nulla, il personale è stato ridotto di quasi il 40 per cento, mancano assistenti sociali, psicologi, non abbiamo la benzina per controllare i detenuti… Eppure solo il 19 per cento torna a commettere reati, mentre in carcere siamo al 70 per cento di recidivi». Basterebbe questa cifra per incentivare le pene alternative, invece non basta: attualmente sono solo 16 mila contro i 70 mila rinchiusi nelle celle. Se uno pensa al direttore di un carcere magari gli viene in mente un aguzzino, per esempio quello di «Quella sporca ultima meta» con Burt Reynolds oppure quello di «Fuga da Alcatraz» con Clint Eastwood.
Invece a vederli lì sul marciapiede aguzzini proprio non sembrano, semmai brave persone. Non sono nemmeno in sciopero, tutt’altro: si sono presi un giorno di ferie per protestare. Perché non hanno la carta igienica, i dentifrici, i materassi per i loro detenuti: «Ci dobbiamo indebitare per ottenerli, firmiamo e non paghiamo, poi si vedrà…», spiega Cantone. Si arrangiano come possono, associazioni, volontari, enti locali. Come a Brescia dove la direttrice Francesca Gioiemi racconta che il Comune governato da una giunta Pdl-Lega «ci compra materassi, frigoriferi, televisori. Un lavoro straordinario». Parola di una persona che certo non vota centrodestra. Così suppliscono alla carenza di risorse che dovrebbero arrivare dall’amministrazione penitenziaria, ossia dal ministero della Giustizia, ma che non arrivano.
«Hanno tagliato via via montagne di risorse – denuncia Gianni Rizza che dirige il penitenziario di Catania – in dieci anni siamo vicini al 50 per cento». Nessuno ha più soldi per tentare di recuperare i detenuti, fargli imparare un lavoro, farli studiare, cercare di avviarli a una vita diversa una volta usciti, sempre che nel frattempo non si siano suicidati. Il carcere ormai è un deposito di uomini e donne buttati lì ad aspettare la fine della pena. E che di pena si tratti i direttori non hanno dubbi: «Il carcere è sempre più un contenitore – continua Rizza – e il direttore è costretto spesso e malvolentieri a fare il domatore. Ma il nostro sistema penitenziario era nato con un altro scopo, quello di fornire ai detenuti l’opportunità di entrare in contraddizione con la loro subcultura e magari di farli uscire un po’ diversi da come sono arrivati. Non voglio dire angioletti, ma insomma…».