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Secondo l’autorevole recensore di tre opere sul sistema giudiziario e penitenziario statunitense (D. Cole, New York Review of Books, 19.11.09, p 41), i falchi della repressione stanno oramai pensando a una cauta ritirata strategica. Qualche dato: negli Usa finiscono in carcere 80 innocui detentori di droga contro soli 20 spacciatori, il che è la causa prima del fenomenale aumento della popolazione carceraria – dal 1975 a oggi di ben sette volte, con un’impennata dopo la dichiarazione reaganiana di “guerra alle droghe” nel 1982 -. Con il dilagare da uno Stato al’altro di leggi “tre colpi e sei fuori giuoco”, alla terza condanna, anche solo per un paio di canne, per il furto di un trancio di pizza, per un insulto al poliziotto che senza motivo ti sta massacrando, si va all’ergastolo. La crescente discriminazione a danno dei soggetti delle minoranze sfavorite ha elevato a otto volte la probabilità di un afroamericano di finire in carcere rispetto a quella di un bianco; e per buona giunta, il primo sconta per un piccolo reato, come la semplice detenzione di droga, una condanna mediamente altrettanto lunga quanto quella di un bianco per un reato di grave violenza – una disparità di trattamento che stride sempre di più dopo il successo di Obama -. E ancora: sono stati in gran parte abbandonati o ridimensionati i programmi per i detenuti (di educazione e riabilitazione, di assistenza post-scarcerazione), il che ha fatto esplodere il tasso di recidivismo. Ovviamente, più se ne ingabbiano – la popolazione carceraria è arrivata a quota 2.300.000; in proporzione in Italia sarebbero oltre 450mila, anziché “soltanto” 65mila circa – e più se ne devono prima o poi liberare. Quindi si prevede che dei 700mila scarcerati nel 2009 ben 490mila torneranno all’ovile entro tre anni. Crisi aiutando, a questo punto molti Stati sono alla canna del gas. Non riescono più a sostenere l’escalation delle spese per i corpi di polizia, i tribunali, le carceri (se ne apre una nuova ogni settimana e un detenuto costa più di uno studente in una buona università). Quindi si è già avviato qua e là un cauto alleggerimento delle leggi penali, una depenalizzazione dell’uso di cannabis su ricetta medica, una proliferazione di corti di giustizia ad hoc, per favorire le pene alternative al carcere collegate a programmi di cura e riabilitazione, pur risparmiosamente in via di rilancio. Si ingrossa la schiera dei potenti – Schwarzenegger in testa – che chiedono a gran voce la legalizzazione e tassazione delle droghe leggere, per sfoltire le carceri e salvarsi dalla bancarotta. Infine, come scrive Grazia Zuffa in queste pagine, Obama ha mosso alcuni primi e significativi passi per porre fine alla war on drugs. Sul piano psico-socio-antropologico, il giurista Cole spiega chiaramente come la penalizzazione delle infrazioni minori, e in particolare quella della semplice detenzione di droga, insieme alla feroce persecuzione dei soggetti deboli, sospinge un numero sempre crescente di cittadini a perdere fiducia nella legittimità ed equità del sistema giustizia: una china fortemente scivolosa, poiché quanto più scende il livello di fiducia nella giustizia, tanto più cresce la frequenza e gravità dei reati. Altrettanto ben dimostrato è che gli investimenti nelle misure alternative al carcere, in quelle a favore degli ex detenuti (educazione, lavoro, casa), in quelle mirate ad abbattere le discriminazioni e lo stigma che li emarginano, recano benefici anche economici assai maggiori che non le spese “a perdere” per la repressione: e non solo per la riduzione dei tassi di recidivismo, ma anche per il ripristino della produttività delle persone. Ma diciamolo chiaramente: il proibizionismo serve ormai troppi interessi illegali e “legali” tra loro strettamente intrecciati, come dimostra un semplice esempio. Un taglio dei profitti dei narcos colombiani, quindi il blocco del flusso di denaro sporco verso le banche della Florida, ridurrebbe di circa il 20% il Pil di quello Stato, il quale si gloria di aver sancito la prima truffaldina vittoria di George W. Bush. Da noi gli economisti prudentemente si astengono da altrettanto specifiche analisi: tengono famiglia.