Quando ieri il Presidente Mattarella, ricordando Luigi Daga, magistrato morto 30 anni fa dopo un attentato in Egitto, ha sottolineato il suo impegno “per restringere la carcerazione ai delitti gravi, per offrire l’opportunità di reinserimento sociale dei detenuti attraverso il più ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione” il pensiero di molti è andato al dibattito sul Decreto Caivano. Parole chiare quelle del Capo dello Stato che ha richiamato anche l’impegno per “rendere coerente il nostro sistema penitenziario coi principi costituzionali”.
Parole pronunciate proprio all’indomani del blitz di Fratelli d’Italia al Senato, dove pare non basti l’aumento a 5 anni della pena massima per la lieve entità per droghe presente nel decreto. Il Senatore Marco Lisei aveva presentato un emendamento che nella sua forma originaria – che martedì aveva ottenuto il parere favorevole del Governo – avrebbe impedito di fatto ai giudici la possibilità di applicarla in giudizio. Prevedeva infatti che il comma 5° dell’art. 73 del Testo Unico, quello che fissa pene minori per fatti che “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità”, venisse escluso in caso di condotta a fine di lucro.
“Una follia giuridica” l’aveva subito definita Riccardo Magi, segretario di Più Europa, ricordando come “già oggi in sette casi su dieci si finisce in carcere proprio con la lieve entità” e che “piuttosto servirebbe un intervento di depenalizzazione che distingua tra le diverse sostanze”. Per il capogruppo del Pd in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, invece si mettevano “sullo stesso piano Pablo Escobar e lo studente che rivende una canna al compagno. Salta il principio di proporzionalità, ed è palesemente incostituzionale“.
Dopo le polemiche – e forse qualche colpo di tosse dal Colle – la sera ha portato consiglio. Così l’emendamento Lisei è stato riformulato. Si introduce “solamente” un pesante aggravio per le condotte di lieve entità “non occasionali”: la pena minima triplica a 18 mesi, pur esistendo già l’aggravante connessa alla recidiva. Vista la platea degli accusati di spaccio questo intervento è probabile si trasformi in un aumento generalizzato delle condanne. Con l’aumento di quella massima, volto esplicitamente a rendere possibile la detenzione preventiva (vedi l’Unità del 9 settembre 2023), è lecito prevedere un ulteriore aggravamento della drammatica situazione del nostro sistema carcerario.
Una storia travagliata quella della lieve entità. Pur essendo presente una fattispecie di minore gravità già nella legge del 75, il fatto di lieve entità è introdotto dalla legge del 1990, con pene differenziate per sostanza. La ratio è di garantire un minimo di ragionevolezza ad un impianto penale che prevedeva (e prevede tuttora) pene sino a 20 anni di carcere per un reato senza vittima. Con il blitz della Fini-Giovanardi fu abolita la distinzione fra sostanze, portando tutte alla pena massima. Solo dopo la condanna dell’Italia da parte della CEDU per il sovraffollamento carcerario, fra i vari provvedimenti deflattivi nel 2013 fu prevista anche la sua modifica, trasformando quella che prima era solo una circostanza attenuante in una fattispecie autonoma e diminuendo le pene edittali. Le circostanze hanno voluto che questo intervento mitigatore, pochi mesi prima della sentenza della Corte di incostituzionalità della Fini-Giovanardi, ha sottratto al giudizio il comma, facendo sopravvivere la non distinzione fra sostanze. Il legislatore è poi intervenuto poco dopo, ma non ebbe né la forza, né il coraggio, di modificarne l’impianto. Si limitò a diminuirne ulteriormente le pene con l’obbiettivo esattamente opposto a quello di oggi: evitare il carcere preventivo.
Lisei giustificando il proprio emendamento originale, svela quale è la concezione della destra rispetto alle droghe: “Se io ho tre piantine in balcone e ne consumo io il prodotto è un conto, ma se invece io lo vendo, è chiaramente un altro caso“. Ovvero, il Senatore – che pure è avvocato – intendeva punire – con l’assenso del Governo – quelli che oggi sono condotte assimilate all’uso personale considerate dalla giurisprudenza “non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale” (Cass. SU 12348/2020) con la norma penale di lieve entità – da 6 mesi a 5 anni – e quello che oggi verrebbe catalogato probabilmente come fatto di lieve entità con le pene ordinarie (da 2 a 6 anni se cannabis, da 6 a 20 se sostanze come eroina e cocaina).
La linea del governo, quindi, è sempre più chiara: abbassare, e di molto, il tiro della legge penale, per andare a colpire sempre di più pesci sempre più piccoli. E poi garantire risorse – accentrandole con la Legge di Bilancio al Dipartimento Antidroga – per le comunità: quelle che fanno uscire i nostri ragazzi dal “tunnel della droga” ma passando prima da un Tribunale, oggi finanziabili anche attraverso l’8 per mille. Si tratta di un goffo tentativo di seguire la narrazione della carota e del bastone che già abbiamo conosciuto ai tempi della Fini-Giovanardi. Del resto l’Alfredo Mantovano, ispiratore della legge di allora, oggi è sottosegretario antidroga e uomo forte del Governo Meloni. Per farlo si mistificano evidenze e dati, facendo finta di ignorare come le carceri italiani siano già zeppe di spacciatori e che la legge sulle droghe sia l’effettivo volano della carcerazione in Italia come dimostra ogni anno il Libro Bianco.
Nelle stesse ore in cui al Senato è andato in scena questo teatrino proibizionista, il governo usciva sconfitto dal secondo round al TAR del Lazio sul decreto che ha inserito le preparazioni orali a base di cannabidiolo (CBD) nelle tabelle dei farmaci stupefacenti. Il Tribunale Amministrativo ha infatti ritenuto fondato il ricorso promosso da Ici – Imprenditori Canapa Italia contro il Decreto del Ministro della Salute Schillaci, rinviando il giudizio nel merito all’udienza fissata per il prossimo 16 gennaio. Il TAR ha rilevato che il decreto manca del nuovo parere del Consiglio Superiore della Sanità e non è chiara in ordine al “dirimente profilo” degli “accertati concreti pericoli di induzione di dipendenza fisica o psichica”, peraltro smentiti addirittura dall’OMS (vedi l’Unità del 5 settembre 2023). Il TAR reputando “fondati, sia pure a un sommario esame, i vizi di carenza istruttoria e di vizio di motivazione” e non ritenendo sussistere imminenti rischi per la salute pubblica ha sospeso il provvedimento sino all’udienza di merito all’inizio del 2024.
La maggioranza sembra però troppo impegnata ad approvare norme manifesto per ascoltare i moniti e la scienza. Siano quelli del Capo dello Stato, dei Tribunali o dell’OMS. Oppure dell’ONU, che insiste nel chiedere depenalizzazione dei fatti minori, minore carcerazione e rispetto della proporzionalità delle pene per droghe (vedi l’Unità del 22 settembre 2023). Di fronte alle difficoltà del Governo Meloni, a partire dalla manovra di bilancio, la risposta pare essere la solita: populismo penale e norme manifesto, rigorosamente a costo zero. Ma solo fino alla loro approvazione: perché le ricadute saranno gravi, prima su coloro direttamente colpiti dall’insensata clava penale, poi sul sistema penitenziario e quindi su una società che continua a consentire che le carceri vengano usate – come ammoniva inascoltato Sandro Margara – come “discarica sociale” e le politiche penali come strumento di propaganda.
[Articolo pubblicato in versione ridotta su l’Unità del 27 ottobre 2023]