Una svolta storica. Non si può definire altro che così la presentazione ufficiale, il 17 maggio, dei due rapporti sulle droghe dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oas), che vede riuniti gli stati del Sud e del Nord America: mentre il primo è un documento analitico sui diversi aspetti del problema droga, il secondo, Scenarios for the drug problem in the Americas 2013-2025, disegna le possibili scelte politiche, a livello nazionale e internazionale. Per la prima volta, in seno ad un organismo interstatuale di tale rilievo, viene alla luce l’ipotesi di una modifica radicale del regime internazionale delle droghe basato sulla proibizione. Nel rapporto si afferma infatti che una delle opzioni è “il cambiamento delle legislazioni nazionali o dei trattati internazionali”. In particolare, “vanno valutati i segnali e le tendenze presenti che vanno verso la decriminalizzazione o la legalizzazione della produzione, vendita e consumo della marijuana”. “Presto o tardi-così si conclude- bisognerà prendere delle decisioni in merito”.
Alcuni dei segnali di cui si parla provengono dagli Stati Uniti stessi, la roccaforte del proibizionismo: i referendum popolari in Colorado e Washington hanno deciso per la regolazione legale della vendita e dell’uso di marijuana: un passo ancora più definitivo rispetto ai precedenti referendum che hanno istituito in ben diciotto stati la depenalizzazione dell’uso terapeutico della marijuana; un vero imbarazzo per l’amministrazione federale, che potrebbe assistere in due dei suoi stati alla concessione di licenze per piantagioni di marijuana e coffeeshops. Sarebbe difficile per il governo chiudere un occhio, ma altrettanto difficile andare contro la sovranità di uno stato e del suo popolo.
Se negli Stati Uniti cresce l’impopolarità della guerra alla droga, specie sotto l’aspetto degli enormi costi economici (20 miliardi di dollari del contribuente americano spesi in dieci anni in America Latina); nel Sud America l’insofferenza verso questa guerra inutile e deleteria si manifesta anche negli alti livelli politici.
Come scriveva a suo tempo Amira Armenta (Manifesto, 13 giugno 2012), lo strappo decisivo è avvenuto nell’aprile dello scorso anno, alla riunione annuale di Cartagena dei capi di stato dell’Oas: per la prima volta la maggioranza dei paesi americani ha apertamente criticato il regime di proibizione internazionale sostenuto dagli Stati Uniti. Fino ad allora, stante lo schiacciante squilibrio nei rapporti di forza, i paesi produttori avevano tutt’al più osato fumose formule come la “richiesta di responsabilità condivisa con i consumatori”. Il che aveva permesso agli Stati Uniti di impedire che neppure venisse nominata una qualsiasi opzione alternativa alla proibizione. Così, il processo di verifica del piano decennale antidroga dell’Onu del 1998 (Ungass 2009) si era risolto in una farsa, utile solo a riconfermare l’intangibilità del regime proibizionista.
Poi la musica è cambiata. La Bolivia ha vinto la battaglia per il riconoscimento internazionale della legalità della foglia di coca, sancita dalla costituzione boliviana: stabilendo di fatto il principio che i trattati internazionali devono riconoscere la supremazia della volontà dei popoli e degli ordinamenti nazionali. Il presidente dell’Uruguay, Jose Mujica, sta spingendo per la legalizzazione della marijuana e pensa alla coltivazione e alla vendita gestite direttamente dallo stato.
Il “cambio di passo” è già una realtà. Finalmente, molti governanti riconoscono che le alternative alla proibizione esistono, e che sono praticabili. L’antiproibizionismo non è più un’eresia dei “fautori della droga”, ma l’orizzonte politico, pragmatico e umanitario, del ventunesimo secolo.