Tra gli altri argomenti spesi dall’avvocatura dello Stato brasiliana per motivare il rifiuto dell’estradizione di Cesare Battisti non manca quello della pena dell’ergastolo comminatagli per i reati di cui è stato riconosciuto colpevole dai tribunali italiani. Sembrerà strano agli italiani che amano crogiolarsi nella illustre memoria di Cesare Beccaria (ancora qualche settimana fa, il supplemento domenicale de Il sole 24 ore metteva Dei delitti e delle pene al pari della Divina commedia tra i capolavori italiani più letti in Cina), ma quella storia lontana non sembra sufficiente a giustificare il presente. Accade così che Paesi di più recente democrazia storcano legittimamente il naso di fronte alla sopravvivenza, in Italia, di una pena come quella dell’ergastolo. Altrove (in Brasile, per esempio) è stata cancellata; qualche volta finanche vietata in Costituzione. Da noi, invece, l’ergastolo sopravvive e gode di ottima stampa e buona fortuna. Se in vent’anni la popolazione detenuta è quasi raddoppiata, gli ergastolani sono aumentati di quasi quattro volte. Nonostante le certezze di molti giuristi, convinti che l’ergastolo non esista più per il solo fatto che gli ergastolani non sono formalmente esclusi dalla possibilità di accedere alla liberazione condizionale (era questa l’autorevole quanto infondata opinione espressa da Antonio Cassese all’indomani della decisione di Lula), sono circa un centinaio i detenuti che hanno scontato più dei ventisei anni di pena che, teoricamente, sarebbero necessari ad accedervi e che restano inesorabilmente in carcere. Non solo: la Corte europea per i diritti umani ha cominciato a prendere in considerazione il “caso italiano” dopo che numerosi detenuti hanno lamentato che una sentenza della Corte costituzionale ha ricondotto anche la liberazione condizionale, anche per gli ergastolani, tra i benefici per cui i condannati di gravi reati devono “dire tutto quello che sanno” per accedervi, anche nel caso in cui “tutto quello che sanno” è una mera ipotesi della autorità inquirenti.
Conviviamo, dunque, serenamente con l’ergastolo, una pena che ad Aldo Moro appariva «crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte». E non ci preoccupa il giudizio degli altri. E non ci facciamo mancare la possibilità di estenderne l’applicabilità. Capita così che un Parlamento che non si distingue per alacre laboriosità abbia trovato tempo e modo di mettere all’ordine del giorno una proposta per la esclusione dei reati punibili con l’ergastolo dalla possibilità di accedere al giudizio abbreviato.
Il codice di procedura prevede che l’imputato che abbia chiesto il giudizio abbreviato e che sia passibile di condanna all’ergastolo è condannabile a trent’anni di reclusione; se gli sarebbe toccato anche l’isolamento diurno, gli basterà l’ergastolo. Si può sempre discutere dei patteggiamenti nel processo penale, se siano un bene (deflattivo) o un male (inquisitorio o opportunistico, a seconda dei punti di vista). Nel caso, il condannato – nella migliore delle ipotesi – si becca trent’anni, il massimo della pena temporale prevista nel nostro ordinamento. Ma trent’anni, in Italia, ormai non sono più sufficienti a punire un condannato per gravi reati, ed ecco allora che da destra e da sinistra sono arrivate proposte per cancellare questa permissiva eventualità. Sin dall’inizio della legislatura giacevano le simili proposte Lussana (Lega) e D’Antona (Pd) e altri. Sarebbero potute morire lì, e invece la prima legislatura dell’ultimo cinquantennio che non ha visto depositare neanche una proposta abolizionista dell’ergastolo, non si è fatta mancare l’esame di una legge così sensibilmente patibolare, con una piccola perla che merita di essere citata. No, non parliamo del prevedibile sostegno dell’Italia dei valori alla proposta, almeno alla fine apertamente contestata dalle altre opposizioni. No, la perla è nell’esame in commissione: inizia nel giugno scorso, con la relazione della stessa Lussana; poi la Commissione viene convocata in argomento per ben nove (9!) volte senza che nessuna/o chieda di parlare, fino a quando la Lega non impone il voto. Non è questa la fine della democrazia parlamentare?
Articolo di Stefano Anastasia
L’articolo di Stefano Anastasia per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 9 marzo 2011.