In occasione dell’uscita del suo ultimo libro Eroina, dieci storie di ieri e di oggi abbiamo conversato con Vanessa Roghi nello spazio domenicale #Spinigenerali, curato su twitter dal collettivo di attivisti social #SpiniNelFianco. Vanessa Roghi è una storica e autrice televisiva, che si era già occupata del tema sostanza nel suo precedente libro pubblicato per Laterza Piccola città. Una storia comune di eroina (2018). Trovate l’audio della conversazione nello spazio di #SpiniGenerali e nel secondo episodio del podcast di Fuoriluogo.
Si tratta di un tema che hai già affrontato da una diversa angolazione, con Piccola città del 2018. Eroina è un’opera organica, che ha il merito di mettere in collegamento fra loro una grande mole di informazioni, approfondendo la questione da ogni prospettiva di studio, che utilizza le storie in modo da legare i vari capitoli, e in cui, spesso, l’eroina diviene una sineddoche per riferirsi a tutte le sostanze illecite. Ci sono le storie, ma c’è anche tanta Storia. Della nascita del proibizionismo statunitense si sa quasi tutto, ad esempio, mentre ben poco si sa dell’influenza diretta esercitata dagli Stati Uniti nell’ambito delle politiche proibizioniste italiane: una vicenda che ricostruisci, e che userei come punto di partenza.
Con Piccola città (Laterza 2018) il tentativo era stato quello di unire l’esperienza biografica a una ricostruzione più ampia della storia dell’eroina in Italia. Mi sono interrogata sulla metodologia da utilizzare, perché, dopo gli studi degli anni ‘70, come quelli di Giancarlo Arnao o Guido Blumir, il sostrato storiografico cui appoggiarsi non è molto ampio.
Quando ho iniziato a scrivere Eroina l’intento che mi sono posta è stato quello di eliminare il mio punto di vista, e di fornire un resoconto storico. Una delle cose che ho scoperto, nell’ambito di questa ricerca, riguarda il ruolo giocato dagli Stati Uniti in merito alle politiche proibizioniste italiane. Una scoperta inattesa, poiché solitamente, quando si fa riferimento a tali questioni, si cita l’Operazione Blue Moon. Io ho sviluppato un’altra tesi, per cui questa operazione non è di fatto avvenuta, mentre ciò che c’è stato è un forte controllo per orientare le politiche pubbliche italiane già a partire dagli anni ‘20, divenuto poi più pervasivo nel dopoguerra, quando l’Italia diventa un elemento fondamentale all’interno dello scacchiere geopolitico. Il definitivo momento di rottura arriva con la legge del 1975 ma poi torna a manifestarsi negli anni Ottanta.
Nel libro spieghi inoltre come questa operazione abbia messo in luce uno degli aspetti più palesi delle politiche proibizioniste, ovvero il fatto che, storicamente, esse non abbiano mai raggiunto l’obiettivo prefissato.
Sì, in generale questo racconta molto della filosofia del proibizionismo. Dietro all’ideologia c’è una logica di stigmatizzazione e demonizzazione della sostanza e di chi ne fa uso, secondo la convinzione che colpire il consumatore equivalga a colpire tutta la filiera. In questo caso, negli anni ‘50, si fa il possibile affinché sia approvata una legge, che entrerà in vigore nel 1954, fortemente repressiva nei confronti dei consumatori, con obbligo di denuncia e ricovero in manicomio a causa dell’uso di sostanze, le quali vengono infine classificate in una tabella. Parallelamente, a livello mondiale, il fenomeno mafioso si sviluppa in termini nuovi, entrando in relazione con il mercato delle droghe illecite. Per intenderci, quello che avviene con gli Shelby in Peaky blinders (serie Netflix, nda)
L’interesse degli Usa era quello di creare un nemico chiaro e identificabile, trovandolo a questo punto nelle organizzazioni criminali. Le quali saranno però abilissime nello sfuggire alle maglie del controllo, stabilendo un sistema mondiale della droga che si inserisce negli schemi della guerra fredda, e che da essa sarà alimentato. Come dimostrato dalla guerra in Vietnam.
Accennavi alla legge del 1954: in Eroina si dedica ampio spazio all’analisi delle varie leggi che, in materia di droghe, si sono succedute in Italia. Legge 1954, Legge 1975, Legge 1990: in che modo esse furono specchio del loro tempo, e che ruolo svolsero nella genesi del senso comune attorno a questo argomento?
Si tratta di leggi che, molto più di altre, riflettono la loro epoca perché cariche di connotati morali che ovviamente cambiano nel tempo.
La legge del 1954 è fortemente vincolata alla forma mentis di allora, per la quale il consumo di sostanze veniva considerata anche e soprattutto una questione morale. Ciò è dovuto in particolare ad alcuni eventi di cronaca che ebbero del clamoroso, come il caso Montesi o il processo Migliardi. Il “drogato” viene inquadrato come personalità corrotta e appartenente agli strati sociali più pericolosi, eticamente degradata, da isolare e denunciare in nome della salvaguardia della società.
Con la legge del 1975 ci troviamo di fronte a una realtà sociale del tutto cambiata, figlia del disgelo costituzionale e dell’ascesa dei partiti di sinistra. La coscienza riguardo tematiche di salute pubblica è molto forte, tant’è che nel 1978 si assisterà alla nascita del servizio sanitario nazionale. La riforma del ‘75 si inserisce in questo contesto, alla stregua di tutta una serie di leggi volte a rendere l’Italia un Paese più giusto e moderno. Il diritto alla salute viene dunque riconosciuto anche all’”eroinomane”, per usare un gergo di allora, in quanto cittadino di una repubblica democratica di cui lo Stato deve prendersi cura.
La legge del 1990 risponde a sua volta a un periodo di feroce reazione allo stato sociale, di cui il testo unico sullo droghe rappresenta forse la punta di diamante.
Una delle parti che ho trovato più interessanti riguarda la tua analisi in chiave antropologica dello sviluppo del paradigma del “drogato”, all’interno di un percorso che parte da un’iniziale segmentazione dei mercati illeciti per giungere infine ai più moderni fenomeni di policonsumo. Potresti illustrare questa evoluzione?
La questione dello stigma non è mai stata del tutto superata, quindi credo che sia difficile poter parlare di evoluzione, quanto più di differenziazione delle risposte in base al frangente storico. Ad oggi non siamo ancora giunti al momento in cui il consumo di sostanze viene percepito come una possibilità, legittima, per quanto dannosa. La mentalità proibizionista non si lega tanto alla paura del mercato nero quanto a un sentimento di panico morale, che ha come conseguenza quella di marginalizzare le persone che utilizzano sostanze illecite. Lo sdegnato dibattito pubblico seguito alla morte di Foucault a causa dell’AIDS, di cui parlo nel libro, in questo senso è esemplare.
Alla base dello stigma ci sono elementi su cui il tuo libro mi ha fatto riflettere: il fatto che la percentuale di consumatori problematici, minima rispetta al totale, venga assunta come unico riferimento significativo nell’ambito del dibattito pubblico. O il fatto che l’utilizzo dell’espressione “War on drugs” non sia casuale, poiché la metafora bellica è presente con costanza nell’ambito della narrazione americana.
Le dipendenze patologiche rappresentano l’immutabile metro di giudizio di tali questioni, cosa che, in primo luogo, esclude la possibilità di distinguere fra uso e abuso. In secondo luogo, calibrare il discorso pubblico riguardo le sostanze su quella piccola percentuale di consumatori problematici equivale a esasperare la questione, estendendola indiscriminatamente a chiunque e isolando il ruolo dei tossicodipendenti all’interno della nostra società.
Passando alla questione lessicale, gli Stati Uniti hanno sempre avuto bisogno della metafora bellica per identificare il nemico come qualcosa che viene dall’esterno. Anche quando le cose si sono poi spostate in ambito interno, ed è il caso della crisi dei farmaci oppioidi, la soluzione è sempre stata quella di creare la figura del grande colpevole.
In merito a questo, un altro aspetto che ritengo meriti approfondimento è legato alla creazione del panico morale, integrando dunque un discorso che ha direttamente a che fare con vecchi e nuovi media. In Eroina si trova una cronaca molto interessante della guerra mediatica scatenatasi negli anni ’70 fra stampa di destra e stampa di sinistra. In questo, il ruolo degli organi di informazione resta centrale. Quali sono gli elementi di continuità e di divergenza, e qual è secondo te la parte che la stampa può recitare?
La stampa si diede battaglia quando la questione esplose negli anni ‘70, poiché la componente politica rappresentava un elemento da tenere in assoluta considerazione. Basti pensare che la provenienza cinese dell’eroina divenne un pretesto per mettere in relazione Palmiro Togliatti con il narcotraffico, dati i rapporti col partito comunista cinese.
Quello che si nota oggi negli organi di informazione, di contro, è un grande disinteresse. I giornali dovrebbero riservare un’attenzione maggiore all’argomento, in particolare in considerazione del fatto che la politica non si mostra intenzionata a farsene carico.
In chiusura, due domande di attualità. La prima riguarda un tuo giudizio sul decreto rave attualmente al vaglio della Commissione Giustizia del Senato. La seconda, ricollegandomi infine al tuo libro, è invece incentrata sullo stato dell’arte della riduzione del danno in Italia.
In merito alla prima domanda, mi sembra si tratti di una grande tattica di distrazione di massa, oltreché di un provvedimento immotivato e superfluo, essendoci già una norma apposita.
La seconda domanda apre a un tema molto serio: la cultura della riduzione del danno va difesa e promossa in modo militante. Sono certa che succederà, così come abbiamo già visto accadere negli Stati Uniti, sebbene in ambito americano la riduzione del danno sia divenuta una strategia solo quando quella che è stata chiamata “epidemia” si è estesa alla borghesia bianca.
Negli anni, le politiche di riduzione del danno in Italia hanno subito tagli e revisioni. Si tratta di un problema molto serio, aggravato dall’uscita di scena di figure storiche come quella di Salvatore Giancane a Bologna per esempio. A causa del mancato ricambio generazionale si rischia di disperdere un patrimonio di grande ricchezza ed esperienza.