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Ciò mentre a Napoli un grave episodio di cronaca scatena il terribile fai da te di una comunità suburbana. Senza andare troppo per il sottile, sorvolando anche sugli aurei principi liberali della necessaria offensività del reato e della personale responsabilità penale, l’etichetta etnica e nazionale sembra sufficiente a individuare i destinatari dei provvedimenti per la sicurezza che il governo intende promulgare in omaggio ai tributi elettorali ricevuti. Come al Colosseo nei trionfi imperiali.
Al netto delle misure amministrative, come quella già presa con la nomina del prefetto di Milano a commissario per la gestione degli insediamenti rom, e di quelle subordinate al consenso dell’Unione europea (come la ventilata chiusura delle frontiere ai neo-comunitari), le linee di azione del governo sembrano essere tre: il prolungamento del trattenimento nei Cpt fino al termine massimo previsto dalla direttiva dell’Unione all’esame del Parlamento europeo; la «certezza della pena» sotto forma di inasprimento delle sanzioni e preclusione dei benefici per i micro-criminali già reclusi nelle prigioni; infine, la previsione dell’ingresso irregolare in Italia come autonoma fattispecie penale.
Come hanno puntualmente obiettato due autorevoli parlamentari della maggioranza (l’ex ministro dell’interno Pisanu e l’ex presidente della commissione giustizia della camera Pecorella), il complesso delle misure proposte è in gran parte propagandistico, privo di prevedibili effetti concreti sulla invocata sicurezza dei cittadini, salvo la congestione e la ingovernabilità di strutture e strumenti assai delicati come i Cpt, gli istituti penitenziari, le aule e gli uffici giudiziari. Chi se ne fa promotore, dovrà spiegare come intende affrontarne gli effetti.
Ma tra le proposte allo studio del governo nell’ambito del cosiddetto «pacchetto sicurezza», la più sintomatica e la più inquietante sembra essere la punibilità della mera presenza irregolare in Italia di persone di cittadinanza extra-comunitaria: non di una azione offensiva di diritti altrui, ma di una condizione soggettiva, peraltro causata dalla stessa legislazione italiana e dalla sua incapacità di consentire l’ingresso regolare in Italia di tutte le persone di cui il nostro mercato del lavoro fa copiosa richiesta.
Non è una proposta nuova. Più volte minacciata, nella legge Bossi-Fini è stata surrogata dal reato del mancato rispetto dell’obbligo di allontanamento dallo stato a seguito di espulsione. In verità, come ha ricordato Valerio Onida sul Sole 24ore di martedì scorso, già quella previsione si prestava a critiche, puntualmente formulate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 22 dello scorso anno.

Essa «prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili», mentre la sanzione della pena detentiva da uno a quattro anni a giudizio della Consulta «presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi di uguaglianza e di proporzionalità della pena». A maggior ragione tali critiche potrebbero essere rivolte a una norma incriminatrice di una semplice condizione esistenziale: ovvero della sola violazione della legge sull’ingresso in Italia delle persone di cittadinanza extra-comunitaria.
Infine, ne risulterebbe gravemente conculcato quel diritto umano fondamentale che una tradizione plurisecolare ha riconosciuto nella libertà di movimento, di migrazione e di emigrazione, che può essere regolato e sottoposto a controlli, ma che non può essere semplicemente negato sotto forma di divieto penale. Qualora queste sembrassero critiche troppo garantiste e liberali, ci si potrebbe limitare a valutazioni di utilità e alla verifica del rapporto tra costi e benefici: impegni tanto aggressivi annunciano un’utopia negativa (e regressiva) che oggi – nell’Italia contemporanea – appare assai difficile realizzare. E che rischia, pertanto, di limitarsi a una mera esibizione muscolare.