Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni. È morto il 14 ottobre, due giorni dopo il suo arresto, nell’istituto penitenziario Capanne di Perugia. Non era un truffatore, un ladro, un assassino; era una persona mite, Bianzino, che consumava marijuana da lui stesso coltivata. Per questo, per coltivazione e detenzione di canapa indiana, era detenuto in quel carcere. Non ci sarebbe bisogno, in questa storia, di spiegare chi fosse: il fatto che un cittadino muoia in carcere già interpella l’amministrazione penitenziaria e le istituzioni, già esige verifiche scrupolose e riflessioni non di maniera.
Ma, per essere chiari e raccontare, in piccola parte e per quel che si può, anche una vicenda umana, chiariamo che Bianzino non era uno spacciatore (non nel senso corrente del termine, certamente): era, piuttosto, un uomo che aveva deciso di vivere, con la sua famiglia, in un luogo remoto dell’Umbria, in mezzo alla natura; era un musicista e un appassionato di filosofie indiane; era un uomo definitivamente estraneo, per stile di vita e inclinazioni, a qualsivoglia condotta criminosa.
Sulle circostanze della sua morte, su quelle poche ore passate in cella, si addensano dubbi che andranno diradati quanto prima, con scrupolo e rigore. Perché le ipotesi iniziali, che collegavano il decesso a un malanno cardiaco, sembrano smentite da altri dati emersi dai rilievi autoptici: fegato e milza gravemente lesionati, gravi traumi cerebrali (è a questi per il momento, che si imputa la sua morte), due costole fratturate. Sul suo corpo, inoltre, nessuna traccia di ematomi: come se i traumi subiti avessero danneggiato direttamente gli organi interni, senza lasciare lesioni evidenti sull’epidermide.
C’è un avviso di garanzia, allo stato dei fatti, emesso contro l’agente di polizia penitenziaria incaricato, quel giorno e in quel turno, della sorveglianza nell’ala di reclusione di Bianzino. I vicini di cella avrebbero sentito richieste d’aiuto; che, così sostengono e così hanno confermato in un recente incidente probatorio, non sarebbero state raccolte. Bianzino, in altre parole, non sarebbe stato soccorso. Ora si attendono i risultati di una terza autopsia, che saranno disponibili tra qualche giorno e contribuiranno a fare luce su questo caso.
Su cui non c’è bisogno di emettere sentenze premature, di fomentare sospetti o accuse: perché è evidente, sin d’ora, che la prima cosa che le indagini dovranno accertare è l’ipotesi che Bianzino sia deceduto di una morte violenta. La procura perugina ha aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti. La morte di quel falegname ci consegna però, sin d’ora, tre questioni da affrontare con urgenza. La prima riguarda la responsabilità che lo Stato ha nei confronti della salute e dell’incolumità dei suoi cittadini; e di quella che, in special modo, ha nei confronti dei suoi cittadini limitati nella libertà personale, ristretti, reclusi.
Il carcere, strumento ed emblema della prerogativa sanzionatoria dell’autorità pubblica, deve diventare quanto prima, soprattutto, luogo simbolo di legalità, istituzione modello nell’applicazione scrupolosa della legge. Là dove vivono reclusi coloro che la legge hanno infranto, la legge deve essere osservata e valorizzata in tutta la sua utilità, in tutta la sua equità. E, dunque, non si può permettere che un cittadino detenuto, per giunta ancora non condannato, per giunta ancora non giudicato, muoia tragicamente e in circostanze poco chiare quali quelle descritte.
C’è poi da interrogarsi sull’utilità del carcere per quanti sono rei di consumo di droghe, e di droghe leggere in special modo (fatto salvo che, nel caso di Bianzino, l’ipotesi di piccolo spaccio che ha determinato l’arresto era stata respinta dall’interessato). Su questo punto la nostra prospettiva è semplice ed è quella già enunciata in molte occasioni: legalizzare i derivati della canapa indiana per ridurre i possibili danni del loro abuso, sottoponendoli a un regime di autorizzazioni e controlli, di limiti e imposte, analogo a quello previsto per sostanze perfettamente legali, eppure assai dannose, come l’alcool e il tabacco (lo ha ricordato più volte Gian Luigi Gessa, già presidente della Società italiana di farmacologia e studioso di chiara fama, come “una dipendenza da nicotina sia molto più grave e più difficile da curare di una da marijuana”). Ciò significa, tra le molte cose, non dover rinchiudere in carcere persone innocue come Aldo Bianzino.
E stroncare gran parte del mercato criminale legato agli stupefacenti. Infine, la morte di quell’uomo può segnare uno spartiacque. La storia dell’amministrazione penitenziaria italiana è macchiata da morti di detenuti sulle quali rimangono ombre, sulle quali si poteva e si doveva indagare di più, accertare delle responsabilità, cercare giustizia. Il lavoro e l’impegno delle molte persone che operano nei nostri istituti di pena con passione, e spesso con sacrificio, meritano che al sistema carcerario sia resa integra e indiscutibile la sua onorabilità e la sua trasparenza.