Che la war on drugs sia direttamente connessa alla diffusione dell’Hiv non è certo una novità. Il puntuale rapporto della Global Commission on Drug Policy (l’organismo composto da ex capi di stato e alte personalità politiche, fra cui Kofi Annan) riporta i costi umani della Guerra alla droga in Messico, passati dalle circa duemila persone uccise nel 2006, alle oltre sedicimila dell’anno appena trascorso. Ma riporta anche i numeri agghiaccianti dell’escalation dell’epidemia da Hiv in Russia, che oggi coinvolge circa un milione di persone, con percentuali di crescita delle nuove infezioni a tre cifre, dovuta in maggior parte alla trasmissione del virus tra i consumatori di sostanze per via iniettiva. Una situazione non molto diversa da alcuni Paesi dell’Est Europa e dell’Asia centrale, mentre in Grecia le nuove diagnosi fra i consumatori sono decuplicate nei primi sei mesi del 2011. Di tutto questo la stampa parla molto meno, quindi ben venga il rapporto della Commissione.
Globalmente si stima che ci siano 33 milioni di persone che vivono con l’Hiv. Dal 1990, il numero annuo delle nuove infezioni è sceso, ma nello stesso periodo si registra un aumento del 25 per cento in sette Paesi, cinque dei quali sono in Est Europa e Asia Centrale. L’incremento è dovuto essenzialmente all’uso iniettivo di sostanze. La trasmissione del virus è direttamente correlata alla mancanza di adeguate politiche di riduzione del danno e alla criminalizzazione e incarcerazione dei consumatori. Ma ancora oggi per molti l’Aids resta un problema “africano” e comunque legato alla trasmissione sessuale. Troppo poca attenzione viene data al rispetto dei diritti umani nelle aree direttamente coinvolte dalla war on drugs.
Il mancato sostegno alla riduzione del danno ha ripercussioni anche da noi. In Italia, tale politica non è ancora ammessa in carcere, a differenza di quanto accade in Spagna, Germania, Svizzera, Scozia e altri Paesi, non solo europei. In passato, l’Italia è stata all’avanguardia nella riduzione del danno, fondamentale per il contenimento dell’epidemia fra i consumatori per via iniettiva; poi, ogni politica è stata cristallizzata, svuotata di senso e risorse e privata di ogni progettualità innovativa. Col risultato paradossale di trovarsi di fronte a “stanze del consumo” organizzate dalla criminalità, come avviene a Scampia, e non dall’autorità sanitaria, mentre l’eroina rivive i fasti del passato tra le generazioni più giovani.
Da anni gli attivisti, ma anche le grandi organizzazioni internazionali e la stessa Onu, hanno indicato l’unica via percorribile per evitare la diffusione di pratiche rischiose per i consumatori e per la popolazione in generale: nessuna criminalizzazione e adeguata disponibilità di strumenti sanitari. Sono politiche basate sull’evidenza scientifica oggi necessarie più che mai, che dovrebbero trovare maggiore sostegno in ambito internazionale.
Uniamo quindi la nostra voce a quella dei promotori e dei membri della Commissione, e facciamo appello anche alle istituzioni italiane: per riconoscere la relazione di causa effetto tra la war on drugs e la diffusione dell’Hiv e adottare principalmente politiche di sanità pubblica per il contrasto all’uso di sostanze, non di polizia. La Guerra alla Droga ha fallito: agire subito significa impedire milioni di nuove infezioni da Hiv.