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Si torna a parlare di sociale, finalmente: per iniziativa del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) del Lazio, che sta promuovendo il pride del sociale. Una bandiera che rincuora, di questi tempi. Al centro della campagna, lanciata nell’affollata assemblea romana di metà novembre, sono il taglio alle risorse economiche, il declino dei servizi, la precarietà e la mortificazione professionale di chi ci lavora, il silenzio deprimente che avvolge questo tema. Per capire meglio la crisi, è bene  iniziare dal settore nevralgico dei servizi per le tossicodipendenze facenti capo alla Act, la Agenzia Capitolina. Gli operatori del privato sociale che gestiscono gli interventi lamentano di non avere più alcuna autonomia, addirittura il materiale informativo viene redatto dai vertici dell’Agenzia e consegnato alle associazioni perché lo distribuiscano agli utenti. Non c’è alcuna sede in cui le associazioni possano contribuire alla formulazione delle politiche e alla progettazione degli interventi. Molti di questi sono ancora finanziati e gestiti  come progetti sperimentali, a termine: sono in questa situazione, guarda caso, tutti i servizi di riduzione del danno. E’ una finzione perché i drop in diurni o i centri residenziali di prima accoglienza sono ormai attivi dai lontani anni novanta: il loro ingannevole status di “progetti sperimentali” serve solo a far risparmiare il Servizio Sanitario Nazionale: alle spalle degli operatori (precari e malpagati), alle spalle degli utenti. Per i tossici, cittadini di serie b, niente di meglio che servizi di serie b.
Certo, molte storture si spiegano con la vocazione autoritaria dell’attuale giunta di centro destra, cui si addice il modello centralistico, top-down, sopra descritto. Ciò che conta è “dare il messaggio  giusto”  (la droga è il Male), dunque non c’è materia per scambio e dialogo col territorio. Tanto meno con le realtà associative  che traggono la loro esperienza dal lavoro coi consumatori di droghe. E non sia mai che il tossico sia trattato come un qualsiasi utente del Servizio sanitario: il criterio guida di valutazione degli interventi sociosanitari, la soddisfazione dell’utenza, pare non valga per le dipendenze. Non a caso la Act interpreta la valutazione come un processo di puro controllo (ideologico) che si somma al soffocante controllo burocratico – denunciano le associazioni. Efficienza manageriale? No, si tratta di arroganza della burocrazia che persegue in genere una finalita’ precisa: strangolare i piccoli e gli onesti (e permettere ai grandi e ai disonesti di farla franca).
Va però riconosciuto che altre gravi storture risalgono a ben prima dell’attuale amministrazione: come la mancata promozione a servizi stabili dei progetti di riduzione del danno, annoso problema che a suo tempo la Regione Lazio, governata dal centro sinistra, non ha saputo o voluto risolvere (cosi’ come putroppo molte altre Regioni); o come la tendenza di molte amministrazioni (di diverso colore)  a relazionarsi con le associazioni non quali partner (sentinelle del territorio, si diceva un tempo) nella costruzione del sistema di servizi sociali; bensi’ a servirsene come mano d’opera a basso costo. Anziche’ coinvolgere gli attori sociali in una battaglia di resistenza ai tagli al welfare, molti enti locali si rivolgono al privato sociale per far quadrare il bilancio.  Amministrare vuol dire anche far quadrare i bilanci. Anche, per l’appunto. Ma non è ammissibile che il governo locale si riduca a mera amministrazione né che il confronto sulle scelte politiche sia sostituito dalla pseudo-efficienza ragionieristica.
Il tema del welfare, dei diversi modi di concepirlo e delle relative differenti politiche non è all’attenzione della  politica locale (e neppure nazionale, ahimè). C’è un welfare della coesione sociale, che cerca di accogliere le differenze e di colmare le disuguaglianze garantendo a tutti i diritti di cittadinanza (lo welfare “che sopporta e supporta”, lo ha definito Ota De Leonardis); e c’è un welfare che seleziona i cittadini “meritevoli” di aiuto e non supporta e non integra i “non meritevoli”, anzi asseconda  le spinte sociali alla loro espulsione. A Roma, a  Milano (e in tante altre città purtroppo), basta citare la parola “nomadi” per intendersi. 
Ora il social pride cerca di risospingere questi temi nel dibattito pubblico. Non possiamo che sperare in un pieno successo.