Confesso che preferivo il Delmastro che rivendicava la sua indifferenza nei confronti dei detenuti, uscendo dal carcere di Taranto l’estate scorsa, al Delmastro che, in confidente dialogo con Pietro Senaldi (Libero, 17.11.2024), si nasconde dietro il paravento della lotta alla mafia per giustificare politicamente il suo scivolone sul trattamento a cui sono o dovrebbero essere sottoposti i detenuti in 41bis, con tanto di dichiarata emozione per il soffocamento delle vittime. Preferivo il Delmastro tarantino perché la diceva come la pensa, senza infingimenti.
All’origine c’è quell’apparente compromesso tra le anime della destra al governo contenuto nello slogan “garantisti nel processo, giustizialisti nella pena”, che al contrario tradisce l’idea stessa del garantismo: il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone, senza distinzione di condizione personale e sociale, che nel diritto penale implica tanto la tutela delle vittime reali o potenziali, quanto degli indagati e degli imputati nel processo, fino ad arrivare a quella dei condannati in esecuzione penale, dentro o fuori il carcere, nelle sezioni ordinarie così come in quelle di alta o massima sicurezza. La legittimità di una democrazia costituzionale si fonda sul riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone che la abitano e sui vincoli che ne derivano ai poteri pubblici, a garantire quei diritti, con politiche pubbliche di sostegno e con limitazioni all’esercizio del proprio potere dispositivo. Al fondo c’è l’idea della eguale dignità degli esseri umani, che non può essere revocata per decreto, fosse pure in ragione del più orribile dei delitti. L’intera Costituzione della Repubblica è edificata intorno a questa idea della dignità umana, per ragioni storiche e politiche ben note.
Al contrario, la destra al governo ha una concezione meritocratica della dignità, che si acquisisce per nascita (nella Nazione) e si può perdere per demerito (deliberato dai giudici in ossequio alle leggi volute dal sovrano pro tempore). Se la dignità bisogna meritarsela, i condannati se la sono giocata nel reato. Così si comprende quel disegno di legge costituzionale presentato dall’on. Cirielli, nella scorsa legislatura firmato anche dalla presidente Meloni, che subordina l’attuazione della finalità rieducativa della pena a “esigenze di difesa sociale”.
Naturalmente questo modo di pensare frutta voti e consensi tra i non esclusi (gli italici osservanti della legge sovrana) e gonfia le vele dei populismi politici, ma la prova del governo è un’altra cosa. Alla prova del governo la destra, soprattutto quella giustizialista, è chiamata a rispondere delle conseguenze delle sue azioni. E alla prova del governo, questa postura machista e forcaiola deve fare i conti con la gestione dell’esecuzione delle pene: da quando il Governo Meloni ha giurato nelle mani del Presidente della Repubblica, la popolazione detenuta è aumentata di 6275 persone, mentre la capienza delle nostre carceri è rimasta pressoché la stessa; direttori ed educatori sono aumentati (grazie a concorsi programmati dai governi precedenti), ma la polizia e i funzionari amministrativi e contabili restano gravemente sotto organico; le misure alternative alla detenzione e le misure di comunità sono sempre più appannaggio di chi riesce ad accedervi dalla libertà, non certo di chi entra in carcere e vi rimane – nella maggior parte – dei casi fino a fine pena.
In queste condizioni, il continuo incitamento alla contrapposizione tra guardie e ladri quotidianamente perseguito dal sottosegretario Delmastro sta producendo disastri, con un livello di disperazione (ottanta suicidi, centinaia tentati e migliaia di atti di autolesionismo) e conflittualità mai visto prima, di cui pagano il conto detenuti e operatori in frontiera, quelli che tutti i giorni vivono il carcere. Di questo deve rispondere il governo, prima che sia troppo tardi.
[Foto: governo.it]