Nel corso della seduta del 20 Dicembre, il Parlamento del Pakistan ha assunto una decisione storica: a partire dal 2023, i reati droga-correlati non verranno più perseguiti ricorrendo alla pena di morte. È la prima volta che ciò accade in oltre quindici anni. Gli ultimi ad aver optato per un percorso abolizionista furono le Filippine, nel 2006. Un’abolizione divenuta presto solo formale: la spietata guerra alla droga condotta dal Presidente Duterte, che secondo gli stessi dati del governo di Manila avrebbe mietuto oltre seimila vittime (stimati invece in quasi 30.000 dalle ONG), e su cui sono in corso indagini da parte della Corte Penale Internazionale, meriterebbe un’apposita trattazione.
Tornando al Pakistan, attivisti e associazioni attendevano la decisione fin dal Marzo di quest’anno, quando un disegno di legge ha introdotto la proposta di sostituire la pena capitale con l’ergastolo, dunque all’insegna di sanzioni che, nonostante il peso della decisione politica, continueranno a garantire un impianto legislativo alquanto repressivo. La riforma, che ha visto l’opposizione del partito conservatore, si offre come spunto al fine di ampliare la prospettiva riguardo l’utilizzo dello strumento pena di morte nel continente asiatico. Le politiche sulle droghe dei Paesi orientali rappresentano infatti un argomento raramente analizzato in maniera approfondita.
Death penalty for drug offences: global overview 2021 rappresenta la bussola più affidabile con cui orientarsi in questo percorso. Si tratta del rapporto redatto annualmente da Harm Reduction International, l’ONG che si occupa di diffondere le politiche di riduzione del danno nel mondo. Secondo il report, la pena di morte per reati legati a sostanze illecite risulta ancora prevista in trentacinque Paesi, inclusi, formalmente, gli Stati Uniti. Di questi, ventotto sono asiatici. Tale pratica, nel 2021, ha comportato 131 esecuzioni e 237 condanne. In entrambi i casi si tratta di un notevole aumento percentuale, rispettivamente del 336% e dell’11%. A queste cifre si aggiungono i tremila detenuti nelle sezioni comunemente note come Braccio della Morte, sparsi in ogni parte del globo.
In base a tali premesse, stupirà scoprire che l’utilizzo della pena capitale come strumento di controllo delle condotte legate alle droghe illecite risulta in regressione. Allo stesso tempo, però, la pratica continua a essere contraddistinta da opacità e, in alcuni casi, censura.
Convenzionalmente, gli Stati vengono suddivisi in quattro fasce, a seconda della frequenza d’attuazione: abbiamo allora Stati ad alta applicazione, a bassa applicazione, ad applicazione simbolica, infine gli Stati per i quali i dati risultano essere insufficienti. Gli Stati considerati ad alta applicazione sono otto, tutti asiatici: Cina, Indonesia, Iran, Malaysia, Corea del Nord, Arabia Saudita, Singapore e Vietnam. La discriminante per rientrare in questa casistica è l’aver eseguito più di dieci condanne a morte negli ultimi cinque anni.
Gli ultimi casi attestati in Cina e Iran sono addirittura dello stesso 2021. È inoltre probabile che le esecuzioni abbiano avuto luogo sia in Corea del Nord che in Vietnam. Indonesia e Singapore sembrerebbero rappresentare una parziale eccezione, non avendo comminato pene capitali negli ultimi cinque e due anni. In Malaysia, infine, si assiste a un aumento delle condanne nei confronti di cittadini stranieri.
L’Asia gioca un ruolo centrale anche nel gruppo degli Stati a bassa applicazione, fra quelli cioè in cui negli ultimi cinque anni non sono avvenute esecuzioni, ma che, allo stesso modo, continuano a comminare condanne. Bahrain, Bangladesh, Iraq, Kuwait, Laos, Pakistan, Sri Lanka, Palestina, Thailandia ed Emirati Arabi Uniti fanno tutti parte di questo novero. In alcuni di essi, come Laos e Thailandia, la pratica della condanna a morte è regolare, in altri (Bangladesh e Kuwait) la pratica è attestata in ripresa a seguito di un periodo di latenza. In Bahrain tutte e tre le persone rinchiuse nel braccio della morte si trovano a rischio di imminente esecuzione. In Sri Lanka, tutte le condanne a morte comminate a partire dal 1998 sono state commutate in altre pene. Tutte, tranne quelle legate ai reati droga-correlati.
I numeri citati da Harm Reduction International, da contestualizzare alla luce di ulteriori fattori, impongono alcune riflessioni, la prima delle quali ha a che fare con i rapporti di equilibrio commerciali fra Paesi produttori e Paesi consumatori. L’Afghanistan, in un solo anno di dominio talebano, ha assistito a un aumento del 32% della produzione di oppio. La Siria è il primo Paese al mondo produttore di captagon, con esportazioni che superano la somma di quelle legali. I mercati delle droghe illecite si stanno dunque sempre più assestando su una rotta commerciale che viaggia a senso unico, lungo un percorso che dalle economie più povere o in via di sviluppo conduce a quelle del mondo occidentale, società dei consumi per antonomasia. In secondo luogo, l’aumento di condanne nei confronti di cittadini stranieri è indice di una tendenza punitiva che estende la sua pratica ben oltre i confini di un controllo sociale teso alla salvaguardia di quei valori percepiti come identitari della culturale nazionale, tratto comune alle war on drugs di tutto il pianeta.
In conclusione, è necessario esprimere un giudizio di condanna circa l’inefficacia della pena di morte come strumento di deterrenza riguardo il consumo di sostanze: appare evidente come neanche il ricorso a una sanzione estrema, che si pone in palese violazione dei diritti umani, abbia nei fatti impedito proliferazione e diffusione delle più ampia gamma di sostanze, oltre che un considerevole aumento dei consumi, resi ancor più pericolosi a causa del mancato controllo sulle sostanze. Concetto, questo, adattabile a ogni latitudine del globo. Che la sanzione penale per il consumo di droghe sia, o meno, la pena capitale.