Il 9 marzo scorso l’International Narcotics Control Board (INCB) ha pubblicato il suo rapporto annuale prevalentemente dedicato a preoccupazioni relative alla legalizzazione dell’uso non medico della cannabis. L’INCB è una giunta composta da 13 esperti che dal loro ufficio di Vienna supervisionano il rispetto dell’applicazione a livello nazionale delle tre Convenzioni delle Nazioni unite in materia di sostanze psicotrope e narcotiche.
Negli anni il monitoraggio della Giunta ha risentito della sua composizione e, in modo particolare, della presidenza. Nata come “cane da guardia del proibizionismo”, dopo l’impennata iper-proibizionista degli anni Novanta dovuta alla ricerca di concordia con i programmi di eradicazione delle colture illecite volute da Pino Arlacchi, l’INCB aveva progressivamente bilanciato la propria lettura delle riforme di leggi e politiche in materia di sostanze sotto controllo internazionale. Si è passati dalla denuncia del referendum italiano del 93 che depenalizzava il consumo di sostanze, reo secondo la giunta di allora di violare le Convenzioni, all’attuale linea che invece chiede agli Stati di decriminalizzare l’uso delle stesse e garantire gli interventi di riduzione del danno. Una decina di anni fa la Giunta aveva assunto un atteggiamento di vigile attesa rispetto alle riforme che sin dal 2013 hanno interessato Uruguay, Canada, Giamaica e 21 Stati USA.
Il rapporto di quest’anno (scaricabile dal sito dell’INCB e da fuoriluogo.it), sulla scia di quello dello scorso anno, dedica invece molte pagine a lanciare l’allarme cannabis. Purtroppo, come spesso accade a livello internazionale come a casa nostra, non si riescono a ottenere dati che possano confortare tali preoccupazioni. I primi ad ammettere questa difficoltà sono proprio gli esperti della Giunta che nella presentazione del rapporto scrivono “che l’impatto sulla società non è stato sufficientemente studiato. I dati presentati dai paesi sono limitati e spesso troppo recenti per trarre conclusioni significative. I modelli legislativi variano notevolmente tra i paesi, rendendo difficile confrontare i quadri e fare previsioni su successi e fallimenti.” Nel dubbio, invece di sollecitare una migliore rendicontazione dell’impatto di nuove e vecchie normative decidono di sparare a zero contro la cannabis, citando studi parziali o superati e spostando l’onere della prova sugli Stati Membri. Non bastano infatti le evidenze ben presenti nella letteratura scientifica mondiale, ma “gli effetti del consumo di cannabis sugli individui e sulle società dovrebbero essere ulteriormente studiati prima che i governi prendano decisioni vincolanti a lungo termine”. L’INCB tiene poi beffardamente a ricordare “ai governi che cercano soluzioni alternative per quanto riguarda i reati legati alla cannabis che le convenzioni sul controllo della droga offrono una notevole flessibilità”.
Ci sono almeno tre problemi che continuano a non esser presi in considerazione quando si affronta il tema delle sostanze sotto controllo internazionale: il primo è che pur essendo al centro di due Convenzioni dell’ONU che ne promuovono l’accesso per usi medici, l’80% della popolazione mondiale, quella più povera, non conosce analgesici e, sebbene la materia prima abbondi – vedasi il record di raccolto dell’oppio afgano – la sua raffinazione per scopi medici è pressoché inesistente. Il secondo è che si continuano a offrire analisi sulla scorta di evidenze parzialissime: quasi la metà degli Stati Membri, specie quelli più popolosi, non elabora con la necessaria attenzione o tempestività i propri dati o non li condivide da anni con l’ONU. Terzo, e forse più grave visto il pregresso e le tendenze globali, si continua a ritenere l’uso abuso e, conseguentemente, qualsiasi tipo di consumo come un problema di salute pubblica e non come un fenomeno socio-culturale.
A ottobre scorso, il Comitato ONU sui diritti economici, sociali e culturali ha deciso di avviare uno studio sull’impatto che le politiche sulle droghe hanno avuto sui diritti di sua competenza. Questo rapporto dell’ONU di Vienna suona come un pre-emptive strike ai colleghi di Ginevra.