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La salute è un diritto fondamentale dell’individuo e insieme “interesse della collettività”, come sancisce l’art.32 della Costituzione. In quanto diritto fondamentale, lo è per tutti e tutte, liberi e reclusi. Perciò, quando la salute, individuale e collettiva, è minacciata in maniera gravissima – come è stato ed è per il coronavirus – ci si aspetta che le politiche pubbliche siano all’altezza di tale principio. In ogni modo, su questo vanno giudicate. Di più: la serietà del pericolo “mette alla prova” – se così si può dire- il rispetto del principio di parità nella tutela della salute.
Sappiamo che il diritto dei reclusi è costantemente minacciato: da un lato entra in contraddizione con la condizione stessa di privazione della libertà (e di totale dipendenza dall’istituzione), che di per sé mette a rischio la salute psichica, prima ancora che fisica; dall’altro, è compresso dalle esigenze di sicurezza, sospinte di questi tempi dal vento di pulsioni sociali afflittive, a sostegno implicito (ma spesso anche esplicito) di quei “trattamenti contrari al senso di umanità” che la Costituzione esclude.
In breve: la tutela della salute dei detenuti/e è fonte di permanente conflitto e la vicenda coronavirus lo ha riconfermato.
Questa premessa di principio è indispensabile per leggere correttamente il dibattito che si è sviluppato intorno alle misure di protezione dall’epidemia in carcere. E per comprendere appieno la direzione: ci si è spinti oltre lo storico conflitto “salute versus sicurezza”, lo stesso diritto alla tutela della salute è stato travolto da una ben determinata concezione retributiva della pena.

Detenuti e anziani, non tutti hanno la salute “nelle proprie mani”

Preliminarmente, propongo di ragionare sullo specifico con uno sguardo alle misure generali di contrasto destinate all’insieme della popolazione. In tal modo, possiamo meglio notare affinità fra detenuti e altri soggetti definibili come “svantaggiati”. La misura eccezionale di lockdown, ad esempio, poco ha tenuto conto delle diseguaglianze fra cittadini. Il “restare a casa” è un’imposizione più pesante per chi vive in spazi ristretti, o magari proprio una casa non ce l’ha; per chi si è ritrovato tagliato fuori dai suoi cari per le nuove “frontiere” regionali, o chi magari, senza un lavoro regolare, è rimasto senza mezzi di sussistenza da un giorno all’altro.
L’affermazione “siamo tutti sulla stessa barca” dice solo una parte della verità. Se il rischio epidemico mette in luce l’interdipendenza fra uomo e ambiente e fra esseri umani, le possibilità di salvarsi dipendono molto dal tipo di imbarcazione con cui affrontiamo la tempesta. Non c’era bisogno dell’America con i contagi e i morti concentrati nei quartieri poveri degli afro-americani, per ricordarci che la salute dipende anche da fattori socioeconomici e culturali. E non c’era bisogno delle tante vittime nelle residenze per anziani (non solo in Italia, purtroppo) per ricordarci della particolare responsabilità delle istituzioni nei confronti di chi non è in grado di provvedere da sé alla propria tutela; oppure, di chi ne è impedito (come i detenuti e le detenute).
Così, mentre l’accento del discorso pubblico era (ed è) focalizzato sull’appello alla responsabilità individuale nell’assumere comportamenti corretti e nell’obbedire ai molteplici divieti (secondo il motto “la salute è nelle nostre mani”), sul terreno della responsabilità sociale sono emerse le falle maggiori. Né ci sono segni di ripensamento.
Per gli anziani, a parte le inchieste della magistratura, è assente una seria riflessione, a livello politico, sulle ordinarie distorsioni dell’assistenza nelle case di riposo, che la minaccia epidemica straordinaria ha messo drammaticamente in evidenza.
Se davvero ci fosse la volontà (e la capacità) di ridisegnare le politiche sociosanitarie, il tema della (non) istituzionalizzazione degli anziani dovrebbe essere all’ordine del giorno nel dibattito pubblico.

“Io resto in cella”, fra prevenzione e afflizione

Un ragionamento simile vale per le persone in carcere: fin dall’inizio non si è tenuto conto del significato che poteva assumere agli occhi di chi è in prigionia l’interruzione dei colloqui coi familiari, dei rapporti col volontariato, delle attività ricreative, educative, culturali. Per dirla in breve: “io resto in cella” è cosa ben diversa da “io resto a casa”. Il lockdown è stato per i più uno spiacevole intermezzo di costrizione personale, alleviato dalla prospettiva temporale breve (e, almeno per me, appesantito dalla stucchevole e falsa retorica del “siamo distanti ma vicini”); per i detenuti e le detenute, è facile ricollegare il cosiddetto “distanziamento sociale” a una precisa idea e pratica della pena: il carcere come pura afflizione, spogliato di qualsivoglia valenza educativa e risocializzante; senza più diritti, a cominciare dalla elementare possibilità di mantenere i contatti coi propri cari; senza cioè l’essenziale per dare ai reclusi una speranza di futuro.
Da qui le proteste, la repressione, i tredici detenuti morti. Sui quali è sceso quasi subito un (irresponsabile) silenzio, puntando il dito sulle responsabilità delle vittime (saccheggiatrici di farmaci psicotropi – si dice), per meglio distogliere lo sguardo dalle responsabilità di chi le custodiva. In nome della responsabilità sociale, dobbiamo continuare a nominare quei morti uno per uno, chiedendo verità e giustizia.
Al momento in cui scriviamo, non si può dire che la minaccia coronavirus sia sotto controllo. C’è stato uno sforzo per ridurre di diverse migliaia i detenuti, alleggerendo il sovraffollamento (i detenuti erano scesi a circa 50.000 agli inizi di giugno), tuttavia non si è raggiunta la capienza regolamentare. In altre parole, il carcere attuale non è ancora in grado di assicurare una vita accettabile in condizioni ordinarie; tanto meno nelle condizioni straordinarie della pandemia. Bisognerebbe scendere almeno di altre 3000/5000 unità, per ottenere standard ragionevoli di sicurezza sanitaria: assicurando il distanziamento fisico fra i detenuti nelle attività quotidiane, soprattutto garantendo l’isolamento dei positivi. Rimane anche il problema della tempestività dei test per i i sintomatici, essenziale per garantire le cure adeguate. Né possiamo dimenticarci che tale gestione dell’emergenza coronavirus ha contribuito a diminuire le opportunità per le donne: si segnala ad esempio che in alcune carceri è stato revocato il lavoro esterno alle sole detenute, per problemi di isolamento dal contagio. Ancora una volta gli scarsi numeri della detenzione femminile si sono tradotti in svantaggio, invece che vantaggio.
Veniamo alla narrazione pubblica dell’emergenza coronavirus in carcere. Si è detto e scritto che i contagiati in carcere sono “pochi”. Ci si è perfino avventurati in (macabri) paragoni fra i contagi “limitati” nelle carceri e la strage nelle Residenze Assistite per anziani (sottinteso: “per i detenuti si fa perfino troppo”). C’è perfino chi si è buttato a calcolare le percentuali di contagio e di mortalità, che sarebbero inferiori in carcere rispetto al territorio. Una triste contabilità, utile a sostenere che “il carcere è un luogo sicuro”, e che “i detenuti stanno meglio dentro che fuori”.
Non è difficile rovesciare la funebre logica dall’ottica dei diritti: anche una sola vita persa – quando la si sarebbe potuta salvare- testimonia la violazione di un diritto.

Dietro le “scarcerazioni facili”, la negazione dei diritti

Proprio qui sta il punto. Nella polemica sui cosiddetti “boss scarcerati” (basata peraltro su dati falsi, come ormai noto) proprio la salute come diritto è stata messa in discussione, alla radice. Non si è respinta la detenzione in luoghi altri dal carcere (casa, ospedale, residenze sanitarie) per il (supposto) maggior di pericolo di eventuali evasioni; quanto perché – si sostiene- solo il carcere assicura il “giusto” tasso di afflizione, a “giusto” risarcimento morale della società e delle vittime. Il carcere diventa un imperativo “morale”, nella logica assoluta che caratterizza tutti gli imperativi a valenza morale-simbolica. In questa luce, non c’è spazio per l’idea stessa dei diritti del detenuto (perfino di quello basilare alla salute). Nello specchio deformante della giustizia come pura retribuzione, i diritti assumono l’immagine di indebito condono per i reati commessi.
La costruzione mediatica dell’emergenza coronavirus (assecondata dalla gran parte della politica) segue questa linea. Le alternative al carcere per prevenire il contagio sono assimilate alle “scarcerazioni facili”. Si utilizzano i casi di reati particolarmente odiosi (vedi il giovane truffatore e assassino della sua insegnante) per presentare il passaggio alla detenzione domiciliare come un rilascio in libertà, chiamando a testimoni i parenti delle vittime che “reclamano giustizia”. Nel mucchio del biasimo sociale, vanno a finire anche le persone (i famosi boss) finite in ospedale in gravissime condizioni di salute, senza che il Covid 19 c’entri per niente. Più in generale, è proprio la salute a non entrarci per niente. E infatti si intervistano le vittime per dire che “non possono tollerare di incontrare per strada i loro carnefici”. Il carcere dopo Cristo, scriveva Alessandro Margara: intendendo dopo Cristo giustiziato in croce.
Ovviamente, il discorso sui “boss” facilita l’espulsione della salute dalla narrazione pubblica. Ma è chiaro che il carcere come imperativo “morale” travolge i diritti di tutti, anche dei “poveracci”. Peraltro, proprio lì si vuole arrivare.
Per questo, non mi convince la logica difensiva di chi ricorda che i trasferimenti fuori dal carcere hanno interessato solo in minima parte, se non per nulla, i boss. Anche se è vero, ed è importante ristabilire la verità. Ma bisogna aggiungere che anche i colpevoli dei reati più gravi hanno diritto a essere protetti dal virus. Senza se e senza ma.
In nome del carcere dopo Cristo, per chi crede: intendendo Cristo nato e risorto. In nome di una società umana e civile, per tutti e per tutte.