Un appello (ancora) inascoltato
Il 27 ottobre 2019, dalle pagine di Repubblica, Roberto Saviano lancia un appello agli intellettuali, ai protagonisti dell’attivismo sociale e alla politica: bisogna imporre nel dibattito pubblico il tema della legalizzazione delle droghe leggere e, più in genere, della depenalizzazione delle condotte di minore offensività in materia di stupefacenti.
Si trattava di un appello a scelte coraggiose e difficili poiché la politica veniva chiamata a muoversi – come evidenziato da un editoriale di Questione Giustizia, la rivista promossa da Magistratura democratica – «in direzione contraria rispetto alle ragioni mondane del proibizionismo: dalla passione contemporanea per il punire alla perdurante egemonia di quell’approccio farmacologico – ormai smentito dai più approfonditi studi scientifici – per il quale vi sarebbe una connessione diretta tra assunzione delle sostanze e propensione al crimine».
A distanza di quasi due anni possiamo dire che l’appello, per quanto riguarda la politica, è caduto nel vuoto.
Nonostante circolino disegni di legge e il dibattito parlamentare sul tema abbia ripreso un minimo di forza, le attuali riforme della giustizia penale (da ultimo la proposta della c.d. Commissione Lattanzi), continuano a muoversi sul terreno delle architetture processuali e a guardarsi bene dal mettere mano al diritto penale sostanziale, nell’ottica di una seria depenalizzazione e di una conseguente efficace politica della droga. Ci si intestardisce sulle priorità dettate dal Parlamento nell’esercizio dell’azione penale – dovrebbero porre fine, nell’intento del riformatore, all’anarchia delle molteplici scelte non democraticamente legittimate delle Procure – e non si scorge quanto sarebbe importante, viceversa, che Camera e Senato si muovessero sul loro terreno: quello della scelta di criminalizzare o decriminalizzare condotte. Se si vuole davvero che una società e le sue contraddizioni non siano governate in prima battuta con il diritto penale, si deve avere il coraggio di portare avanti una seria campagna di depenalizzazione.
Il proibizionismo e i suoi effetti: affacciarsi in carcere
Sarebbe sufficiente uno sguardo sul carcere per rendersi conto della bontà di questa seconda opzione, anche sotto il profilo del guadagno in termini di efficienza e celerità del processo penale.
Mettiamoli, dunque, gli occhi nella galera italiana. Tra il 2015 e il 2020, infatti, abbiamo assistito a due processi paralleli: da un lato la costante decrescita dell’andamento della delittuosità, dall’altro il nuovo e costante aumento delle presenze all’interno del penitenziario. A febbraio 2020, prima dello spread della pandemia dovuta al virus Sars-CoV-2, i numeri dei detenuti “accatastati” (in molti casi verrebbe da dire: abbandonati) nelle prigioni italiane superavano nuovamente le 61.000 unità. A cosa si deve questa saturazione della galera se i tassi della delittuosità diminuiscono?
Gioca un ruolo decisivo, senza dubbio, la permanente criminalizzazione dei consumi delle droghe leggere e, più in genere, delle condotte di uso e consumo caratterizzate da una minore offensività. Il XVII Rapporto Antigone, nel porre l’accento sui reati più rappresentati nel carcere italiano, attesta che in questa particolare classifica i reati in materia di sostanza stupefacente (18.757) vengono immediatamente dopo i reati contro il patrimonio (30.745) e i reati contro la persona (23.095). La percentuale delle condanne per droga aumenta tra i detenuti con pene brevi e tra gli stranieri: di quest’ultimi, circa il 34% è dentro per reati collegati al mondo della droga.
Più simbolici ancora i dati statistici relativi ai detenuti per fatti di droga e ai detenuti dipendenti da sostanze ospiti degli istituti di pena della Regione Lazio. Nel corso di un’audizione informale dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, il Garante dei Diritti dei Detenuti di quella regione ha specificato che i ristretti per violazioni del Testo Unico in materia di stupefacenti al gennaio 2021 erano pari al 36% del totale della popolazione detenuta e che i detenuti per fatti di droga di lieve entità erano pari al 6% della popolazione detenuta. Nello stesso lasso di tempo i detenuti dipendenti da sostanze erano pari al 47% del totale, dato che riteniamo di poco superiore la media nazionale.
La differenza percentuale tra detenuti per fatti di droga e detenuti dipendenti, con quest’ultima porzione maggiore, si spiega con una ragione: molti dipendenti non commettono (o non commettono solo) fatti di droga, ma anche reati contro il patrimonio. La conseguenza di anni di politiche repressive che hanno stretto attorno al tossicodipendente una ragnatela di divieti penali ha comportato esattamente questo: ingolfamento delle prigioni e dei tribunali, abbandono di ogni strategia sociale e di riduzione del danno, sconfitta nella grande guerra alla droga.
Nulla è cambiato – le cose sono anzi peggiorate – rispetto a quanto messo in evidenza dalla ricerca promossa dal Garante della Regione Toscana delle persone private della libertà, in collaborazione con la fondazione Michelucci, e dalla decima edizione di questo Libro bianco. L’Italia, con il suo 31% di detenuti ristretti per violazione delle leggi sulla droga, continua a essere il Paese del Consiglio d’Europa con il più alto numero di condannati in via definitiva per reati di droga. Un processo su due per droga si conclude con condanna a pena detentiva, rispetto agli uno su dieci nel campo dei reati contro la persona.
I trenta (in)gloriosi e la Corte costituzionale
Sono passati ormai trent’anni dalla prima legge radicalmente proibizionista, la Iervolino-Vassalli del 1990, ma la war on drugs nel nostro Paese non ha conosciuto tregue.
Il salto di qualità in senso repressivo si è avuto con la legge Fini-Giovanardi (49/2006): equiparazione tra droghe pesanti e droghe leggere, inasprimenti repressivi, affievolimento della distinzione tra tossicodipendente, consumatore e spacciatore.
La politica non è mai riuscita a fare realmente marcia indietro da quella direttrice, nonostante l’avvicendarsi – in un sistema maggioritario incapace di allargare la rappresentanza – di maggioranze di diverso colore.
È stata la Corte costituzionale del 2014, per fortuna, a bocciare l’equiparazione tra droghe leggere e pesanti, inseguita poi dai decreti legge del 2013 e del 2014 che hanno ripensato in termini meno afflittivi la fattispecie di lieve entità, conferendole dignità di reato autonomo. È stata ancora la Corte costituzionale, con la sentenza 40 del 2019, a intervenire sulla legislazione penale in materia di stupefacenti (per sopperire al silenzio del legislatore di fronte agli inviti della stessa Corte) e ripristinare «il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio» e risanare «la frattura che separa le pene inflitte per i fatti lievi e i fatti non lievi». Sono molti i profili di interesse di questa pronuncia, alcuni dei quali travalicano la materia degli stupefacenti. Occorre dare atto, infatti, che la sentenza scrive una pagina ulteriore e importante del rapporto tra Corte costituzionale e legislatore (dunque: politica). Preso atto dell’immobilismo del Parlamento, la Consulta decide di intervenire, anche a rischio di attirarsi critiche per avere invaso la sfera della discrezionalità politica. Lo fa perché, come è scritto nella 40/2019, «occorre evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore». La fine dell’epoca delle “pronunce a rime obbligate”, che in più settori dell’ordinamento aveva sparso dichiarazioni di inammissibilità delle questioni di costituzionalità, ha coinciso con la mitigazione del trattamento punitivo degli illeciti in tema di stupefacenti, con effetti non solo per l’avvenire, ma anche per il passato, visto che sarà possibile rimodulare le pene irrogate in via definitiva, ma all’interno di cornici edittali illegittime. Ma tutto questo è ancora poco. Sono ancora tanti i condannati per fatti di lieve entità che finiscono nelle galere, per i quali ogni alternativa terapeutica è affidata al “dopo”, all’esecuzione penale.
I giudici di Cassazione: tra ambiguità e passi avanti
Una certa impronta di tipo repressivo viene assunta anche da decisioni giurisprudenziali: la vicenda della cannabis light, a partire dalle prime interpretazione della sentenza a Sezioni Unite (2019/30475), sta lì a dimostrare che il paradigma carcerocentrico è più che mai attuale.Nonostante questo, tuttavia, è ancora la giurisprudenza a mostrarsi sensibile al tema. Con sentenza a Sezioni Unite (SS UU 12348/2020), la Corte di Cassazione ha rimeditato gli orientamenti in materia di coltivazione domestica, tratteggiando una vera e propria scala di rilievo penale delle condotte di coltivazione. Al gradino più basso si colloca la coltivazione domestica destinata all’autoconsumo. Si tratta di una condotta che per la nuova giurisprudenza della Suprema Corte – qui sta il progresso rispetto alle SS UU Salvia – non è penalmente perseguibile per difetto di tipicità. In base al nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, il fatto si sottrae all’intervento repressivo non in quanto inoffensivo, ma perché, a monte, non integrante gli estremi della coltivazione. Più che soffermarsi sui parametri di legge dai quali la Corte desume tale prezioso principio, è utile esaminare i presupposti oggettivi in base ai quali la Cassazione individua con certezza la condotta non punibile: minima dimensione della coltivazione, svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, rudimentalità delle tecniche, scarso numero di piante, mancanza di indici di un inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, oggettiva destinazione del prodotto all’uso personale esclusivo. Si tratta di indici che devono essere compresenti: non basta, chiaramente, la sola intenzione soggettiva di coltivare per uso personale. La soluzione adottata consente di prescindere dal fatto che dalla coltivazione domestica possano derivare sostanze con efficacia drogante. Qualora ciò dovesse verificarsi, per il coltivatore – in quanto detentore per uso personale – si apriranno le porte dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75 TU.
Sul gradino successivo dell’ipotetica scala si situano le coltivazioni che, in assenza di uno dei detti indicatori, vanno qualificate come tipiche. Per affermare la loro illiceità penale la Corte chiede una verifica adeguata sulla loro offensività in concreto: nessuna offensività – dunque nessuna pena – ogni volta che ci si trovi davanti a modalità di coltura inadeguate a produrre sostanza ovvero, a ciclo colturale terminato, a prodotti privi di principio attivo o non conformi al tipo botanico.
Risalendo la gradazione della risposta punitiva, troviamo le condotte tipiche e offensive, ma non punibili per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.) e, infine, quelle punibili secondo la gamma sanzionatoria prevista dal legislatore (ivi compresa la fattispecie di lieve entità).
Oltre a meglio delineare il concetto di bene giuridico protetto – individuandolo nel solo diritto alla salute e sterilizzando il dibattito dei giuristi da concetti come “salvaguardia delle giovani generazioni”, “sicurezza” e “ordine pubblico”, che non avevano giovato ad un approccio laico alla tematica del consumo di cannabis – questa giurisprudenza ha avuto il merito di rafforzare un approccio flessibile e graduale nella risposta penale al fenomeno della diffusione delle sostanze psicotrope.
In quest’ottica, ad esempio, appare di decisiva importanza il consolidamento dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131 – bis cod. pen. e già riconosciuta dalla giurisprudenza di merito e di legittimità adottabile nelle ipotesi astrattamente sussumibili nell’art. 73, comma V, dPR 309/90.
Nel complesso, pertanto, si può dire che i recenti orientamenti della Corte di cassazione e della giurisprudenza di merito hanno le carte in regola per evitare un rigorismo repressivo che, sinora, ha ottenuto soltanto il risultato di allungare la catena dello spaccio.
Le strade della politica
Ora, tuttavia, l’auspicio da formulare è un altro: che la palla passi alla politica, possibilmente per disegnare ex novo la disciplina delle droghe leggere, abbandonando il paradigma della pena in favore di un approccio socio-culturale multilivello.
In tempi in cui si discute di diritto penale minimo, confinandolo troppo spesso in una prospettiva utopica e di chiacchiera da salotto, il ripensamento della politica criminale in materia di stupefacenti sembra l’unica via da seguire per innalzare il livello di tutela della salute pubblica, per restituire al diritto penale efficacia selettiva e capacità di orientamento e al processo ragionevole durata.
In questo senso una possibile occasione è costituita dalla proposta di legge C. 2037 Magi, la quale, nel raccogliere lo spirito di alcuni orientamenti giurisprudenziali, si pone l’obiettivo di decriminalizzare la condotta di coltivazione di cannabis ad uso personale, di rendere definitivamente autonome – anche a livello di testo legislativo, mediante l’introduzione dell’art. 73 bis nel Testo Unico – le fattispecie di lieve entità, di differenziare le pene in base alle sostanze ricevute.
Si tratta di un approccio graduale che consentirebbe di fare passi avanti, spazzando via un po’ dei frutti amari del proibizionismo indiscriminato che, di fatto, ha liberalizzato il mercato gestito dalle mafie, aumentato le occasioni di approccio alle sostanze, favorito la criminalizzazione secondaria del tossicodipendente, aperto le strade delle città alla violenza e rallentato ogni strategia terapeutica e di riduzione del danno. Come hanno scritto Franco Corleone e Grazia Zuffa, il motto proibizionista del ‘mondo libero dalla droga’ ha finito dividere la società e ha tutelato «una parte dei cittadini (coloro che saranno convinti ad astenersi) contro l’altra parte (di chi consuma)».
Certo, gli umori che si respirano rischiano di attivare processi legislativi di recupero delle strategie proibizioniste. Pende in Parlamento, alternativa alla proposta Magi, il disegno di legge Molinari. Una direzione repressiva senza reticenze: in carcere tutti, anche i responsabili per fatti di lieve entità, nei confronti dei quali si ripropone l’arresto obbligatorio in flagranza. La stessa ministra Lamorgese, nel febbraio 2020, aveva avanzato l’idea di rimettere in carcere i recidivi per fatti di lieve entità.
Insomma, la politica è chiamata a una scelta. I fatti di questi anni – 15 miliardi di spesa per stupefacenti in Italia, un ragazzo su tre tra i 15 e i 19 anni che prova sostanze, crescita esponenziale del narcotraffico – dimostrano che l’aggravamento del proibizionismo conduce a questi risultati: consumatori in carcere e droga in strada.
Non è questa la strada laica indicata dall’art. 32 della Costituzione.