Non può meravigliare più di un tanto il pesante avvertimento dell’amministrazione Obama ai californiani: non azzardatevi a votare a favore della legalizzazione della cannabis; e se approverete la proposta, fermamente mi impegno a dispiegare tutte le forze federali per far rispettare la legge nazionale proibizionista. Cioè al di là di una tolleranza degli usi medici della cannabis in California e in alcuni altri stati, il comandante supremo traccia un limite invalicabile, con tanto di appoggio del suo ministro della giustizia che anche lui sprizza fulmini e tuoni.
Non ci si può meravigliare di questa uscita poichè dai tempi dei discorsi progressisti prima delle presidenziali, la marcia di Obama è stata tutta una penosa “ritirata strategica”, nel tentativo di arginare la frana nelle imminenti elezioni di fronte al clamoroso successo della campagna denigratoria della destra più retriva. (Ancora un passettino, e molti americani si convinceranno che il loro presidente e i suoi complici mangiano bambini come i rossi di una volta). Le prime dichiarazioni di Obama e del suo Drug Czar per un cambio nella politica della droga sono così state ben presto smentite dai successivi bilanci nei quali aumentava, anzichè diminuire, la percentuale di fondi destinati alle attività di repressione, rispetto ai fondi per la prevenzione, l’informazione, l’educazione, la riduzione del danno. (Non parliamo in questa sede né della valanga di dollari regalata agli speculatori, né della castrazione della riforma sanitaria e di quella della finanza, né delle analisi di esperti non sospetti, i quali trovano nella storia dell’avvocato Obama chiare tracce di una robusta vocazione di “conservatore illuminato”, difensore a parole dei diritti dei deboli e alleato nei fatti con i poteri forti).
Nel campo della politica delle droghe non occorre la sfera di cristallo per prevedere una serie di conseguenze negative del giro di valzer di Obama. La prima riguarda la scena internazionale, dove non pochi paesi che si considerano più “progrediti” del nostro vedranno confermate le loro normative fortemente proibizioniste (la Svezia, la Francia); dove altri paesi, meno proibizionisti, vedranno incoraggiate le spinte sempre più forti a pentirsi a favore di politiche più dure (l’Olanda, il Regno Unito); dove altri ancora, come la Russia – nella quale non si parla neanche di metadone né di scambio di siringhe, dove la quasi totalità degli utilizzatori per via iniettiva è sieropositiva o già ammalata di AIDS – vedranno consacrata dal partner statunitense la “bontà” della loro politica. Non parliamo poi di paesi come il Messico, dove si sperava che una legalizzazione della cannabis potesse contribuire a calmierare l’orrenda macelleria provocata dal narcotraffico; o come l’Italia, dove non solo vedremo rafforzata la linea dell’attuale governo, ma anche sfumare quel tenue residuo di vocazione antiproibizionista che ancora vivacchiava in quel che resta della sinistra (e del resto il governo di centrosinistra, tra il primo e il secondo regno Berlusconi, non ha neanche tentato di modificare la normativa liberticida e assassina sulle droghe).
La riaffermazione dell’indirizzo proibizionista americano porta anche parecchia acqua al mulino di quell’organo ad hoc delle Nazioni Unite (l’UNODC) la cui vocazione proibizionista è tra l’altro spesso in contrasto, su argomenti vitali (riduzione del danno, lotta all’HIV/AIDS, e altro) con quella di altri organi delle stesse NU, come l’OMS. Il nuovo direttore russo Fedotov, la cui nomina ha suscitato un universale sgomento, è già partito in quarta con le cortine fumogene dei discorsi illuminati (educazione, prevenzione, e tutto il resto del bla-bla-bla); ma a meno di una sua vocazione suicida attraverso lo scontro frontale con i boss di Mosca e di Washington, non si vede come possa cambiare la politica sinora seguita. Infine una notazione sulla situazione interna degli Stati Uniti. Da oltre due secoli, anche a parte i fatti più noti – l’epico braccio di ferro tra i sostenitori di un governo centrale forte (i federalisti come Alexander Hamilton) e i paladini delle autonomie locali con un governo centrale debole (come Thomas Jefferson); il sanguinoso strappo della guerra di secessione (ancora oggi per gli americani The War senza aggettivi) -, tutta la storia dell’Unione è stata segnata da ripetuti conflitti tra le comunità locali e i singoli stati, da un lato, e il potere federale, dall’altro: conflitti che hanno spesso richiesto molto tempo, molta fatica, molti soldi per giungere a una ricucitura. E ora, se un po’ più o un po’ meno del 50% dei californiani vota per la legalizzazione della cannabis, e se in caso di approvazione il presidente manda l’FBI e l’esercito, come una volta in Alabama per più nobili motivi, cosa potrà accadere?
La California non è una delle proverbiali formiche di Gino & Michele: ha una quarantina di milioni di cittadini già discretamente incazzati (per esempio, poichè hanno solo due senatori a Washington, come il Wyoming con mezzo milione di abitanti e altri sei stati sotto il milione); e se si incazzano ancora di più per l’intervento minacciato da Obama – un intervento che tra l’altro impedirebbe sia l’instaurazione di un controllo di qualità su di un prodotto già consumato in enormi quantità, sia un risanamento delle finanze statali attraverso una tassazione della cannabis come quella del tabacco e deglii alcolici – le conseguenze paiono imprevedibili.