Tempo di lettura: 2 minuti

 I suoi anni a capo della Dea, l’agenzia antidroga americana, hanno coinciso con l’ascesa del cartello di Tijuana: «Combattere i narcos messicani è stata tra le esperienze più frustranti della mia vita» racconta Thomas Constantine, 62 anni, che è ora responsabile della ristrutturazione delle forze di polizia in Irlanda del Nord. «Il problema maggiore è la mancanza di punti di riferimento».
In che senso?
Non sai di chi ti puoi fidare dall’altra parte del confine. Nella maggior parte dei casi le informazioni che raccoglievamo sui trafficanti finivano per essere distrutte perché finivano a poliziotti o magistrati al servizio del cartello. Anche quando riuscivamo finalmente a emettere un ordine di cattura internazionale le cose non cambiavano: gli arresti non venivano portati a termine. E catturare gli Arellano non sarebbe facile neppure in un clima di collaborazione totale: spesso venivano accompagnati da 90 guardie del corpo armate di tutto punto.
Il cartello è più forte della Dea?
Sicuramente più delle autorità messicane: la collusione dei narcos nello stato ha raggiunto il suo massimo all’epoca del presidente Salinas. Il nuovo, Vicente Fox, non lo conosco, ma gli posso già mandare un messaggio: anche per chi ha buona volontà sei anni sono pochi per riformare una situazione come quella messicana.
Il film «Traffic» punta l’indice anche sulle colpe degli americani: che cosa ne pensa?
Il film non l’ho ancora visto. Negli ultimi 15 anni abbiamo speso oltre 40 mila miliardi nella lotta alla droga. In alcune situazioni il consumo è stato ridotto anche del 40 per cento: se avessimo le stesse percentuali di successo nella guerra all’aids, si griderebbe al successo.
Difende anche la guerra in Colombia?
Sì, perché bisogna aiutare i paesi amici in difficoltà. E soprattutto non si può lasciare uno stato nazione in mano a un’organizzazione di guerriglieri. Non c’era altra scelta se non quella di intervenire.