In vista dell’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass), prevista a New York nell’aprile 2016, le Ong che si battono per la riforma della politica delle droghe stanno preparando una piattaforma di rivendicazioni. International Drug Policy Consortium, la rete cui aderiscono 130 associazioni da ogni parte del mondo, le ha riassunte in un documento. Il primo obiettivo è che l’Assemblea sia aperta alla società civile: da qui l’impegno a costruire una Civil Society Task Force, che sia riconosciuta come interlocutore ufficiale anche nella fase preparatoria dell’evento. L’approccio bottom up, se accolto, sarebbe un segnale di apertura democratica, e al tempo stesso la condizione per vincere l’autoreferenzialità, l’immobilismo del sistema, i suoi vuoti rituali: come la Dichiarazione Politica Finale che chiude questi incontri internazionali, frutto di defatiganti compromessi per raggiungere l’unanimità. Il rito unanimistico ha oggi la sola funzione di cementare le crepe del sistema, evitando un dibattito aperto sulle differenze di politiche fra gli stati membri: differenze clamorosamente venute alla luce dopo che molti paesi hanno scelto di depenalizzare il possesso e l’uso personale di droghe, e ancor più dopo che l’Uruguay e un numero significativo di stati Usa hanno legalizzato l’offerta di cannabis a uso ricreativo.
Ciò di cui si avverte oggi la necessità è un cambio di passo, a iniziare dal linguaggio e dalle forme del confronto e della decisione politica: ci si aspetta un “full and honest debate”, come ha chiesto lo stesso Ban Ki Moon; e che il confronto aperto sia documentato ufficialmente in un rapporto finale, a disposizione dei policy maker degli stati membri. Soprattutto, si abbandoni la vecchia retorica del “mondo libero dalla droga”, ricalibrando gli obiettivi del sistema di controllo. Perfino altre agenzie Onu puntano il dito contro la strategia di guerra totale alla droga: si veda il recente documento dello United Nations Development Programme (Undp), laddove sono citati come effetti controproducenti delle attuali politiche “il mercato criminale, la corruzione, la violenza, le minacce alla salute pubblica, gli abusi su larga scala dei diritti umani comprese le punizioni inumane, la discriminazione e la marginalizzazione dei consumatori di droga”.
Meglio allora scegliere altri obiettivi, più in linea con la mission umanitaria e di promozione sociale delle Nazioni Unite. A cominciare dallo sviluppo dei diritti umani, rispettando il principio di proporzionalità della pena rispetto al reato: oggi clamorosamente contraddetto dai paesi che applicano la pena di morte per reati di droga e da quelli che infliggono la carcerazione per semplice consumo (sono milioni i consumatori imprigionati per questo reato nel mondo).
Scegliendo di focalizzare sulla salute pubblica, la riduzione del danno è la strategia più consona a tale obiettivo. E’ giunta l’ora che essa sia riconosciuta come “pilastro” della politica della droga, anche a livello internazionale. Di più, la riduzione del danno deve diventare una modalità complessiva di governo della questione droga, ivi compreso l’aspetto di riduzione del danno della proibizione. Va in questa direzione la risposta del governo uruguayano allo International Narcotics Control Board (Incb), in difesa della legalizzazione della cannabis: la legge sulla cannabis deve esser letta come un tentativo di “combattere gli effetti dannosi del traffico di droga”, attraverso “una modalità alternativa (alla repressione n.d.r.) per sottrarre il mercato ai trafficanti di droga, in armonia con lo spirito e la finalità ultima delle Convenzioni”.
Il dibattito “onesto e completo”, invocato dal Segretario Generale dell’Onu, è di fatto già cominciato.(fine, la prima parte è uscita l’11 marzo)