Corrispondenza da New York di Grazia Zuffa – La regolamentazione della Cannabis e i Trattati Onu. Strategie di riforma: è questo il titolo del paper che è stato presentato come evento collaterale ad Ungass 2016, nella mattinata della seconda giornata di lavori (20 aprile). E’ stato uno dei side events più affollati, come ci si poteva aspettare. Il paper è stato promosso da un gruppo di Ong e istituti di ricerca (fra gli altri, il TransNational Institute di Amsterdam, Transform (UK), il Global Drug Policy Observatory (Gdpo, UK), il Wola (Advocacy for Human Rights in the Americas).
Questo incontro ha offerto spunti, ma ha anche sollevato dubbi, che illustro più avanti. Il video del side event è disponibile qui.
Il retroterra: la classificazione della cannabis e le defezioni “soft”dalle Convenzioni
La cannabis è una delle sostanze incluse nel sistema di controllo Onu, compresa sia nella Convenzione Unica del 1961, che nelle successive del 1971 e del 1988. L’articolo base è contenuto nella Convenzione Unica del 1961 che stabilisce per la cannabis (così come per le altre sostanze proibite) che “la produzione, la manifattura, l’esportazione, l’importazione, la distribuzione, il traffico, l’uso e il possesso ..siano limitati.. esclusivamente a scopi scientifici e medici”.
Le sostanze messe sotto controllo internazionale sono classificate in tabelle e la cannabis è inserita nelle tabelle I e IV, alla pari di eroina e cocaina.
La Convenzione Unica fu negoziata negli anni quaranta e cinquanta e riflette un orientamento che risale a ben prima, agli inizi del novecento, quando un piccolo gruppo di paesi (segnatamente gli Stati Uniti) assunsero la leadership proibizionista nello scenario geopolitico di allora. Da notare che la Oms e lo Ecdd (Expert Committee on Drug Dependence), gli organismi cui le Convenzioni del 1961 e del 1971 affidano il compito della valutazione scientifica circa la classificazione delle sostanze, non si sono mai cimentati in una revisione formale della cannabis. Dunque, l’attuale classificazione della cannabis risale al 1935.
Nonostante i vincoli giuridici di stretta proibizione, fin dagli anni settanta diversi paesi scelgono politiche “miti”, come il sistema dei coffeeshop, inaugurato dall’Olanda; e più recentemente il sistema dei Cannabis Social Club (Csc). A parere degli estensori dello studio, si tratta di defezioni “soft” dagli obblighi normativi delle Convenzioni: in particolare, i coffeeshop si avvalgono della flessibilità concessa ai paesi membri circa la persecuzione penale del consumo, la quale è soggetta “ai principi costituzionali e alle concezioni fondamentali del sistema legale” nazionale. Se la decriminalizzazione del consumo personale è alla base dei coffeeshop, i Csc (consorzi di piccoli coltivatori per uso personale) utilizzano le norme nazionali di equiparazione fra possesso e coltivazione ad uso personale, depenalizzati. I sistemi di distribuzione di cannabis ad uso medico rientrano invece nelle finalità mediche previste dalle Convenzioni (nell’interpretazione degli stati che li hanno inaugurati, e non dello International Narcotics Control Board, l’organismo preposto all’applicazione delle Convenzioni).
C’è poi la posizione dei paesi in cui è presente l’uso tradizionale e religioso della cannabis, come la Giamaica. La Convenzione Unica permetteva una fase intermedia di tolleranza, che però è scaduta nel 1989. Da allora, l’uso tradizionale non è certo scomparso. In Giamaica, si è creato così un conflitto fra livello giuridico nazionale, le Convenzioni sulle droghe e altri trattati Onu che proteggono i diritti e le tradizioni indigene.
Dalle defezioni soft alla regolamentazione dei mercati di cannabis a uso ricreativo: Usa e Uruguay
A parere degli estensori del paper, quanto avvenuto sia nel sud che nel nord del continente americano rappresenta una svolta “che dà luogo a violazione diretta delle Convenzioni, laddove vietano la canapa se non per scopi medici o scientifici”: negli Stati Uniti, a partire dal 2012, in seguito ai referendum popolari, Colorado, Washington, Alaska e Oregon hanno scelto di permettere mercati legali regolati della cannabis anche a uso ricreativo, regolarmente tassati. E’ probabile che altri stati, fra cui la California (la settima economia del mondo), seguiranno l’esempio. In Uruguay, nel dicembre 2013, la produzione, coltivazione, distribuzione della cannabis è passata sotto controllo statale, tramite lo Institute for the Regulation and Control of Cannabis – IRCCA. Ci si aspetta che anche il Canada segua quella strada, come annunciato dal nuovo governo.
Questi sviluppi dovrebbero aprire la strada alla revisione delle Convenzioni per modernizzare il sistema. Da notare: l’Uruguay rivendica al contrario che la scelta della regolamentazione sia compatibile con le Convenzioni, poiché conforme all’obiettivo ultimo delle Convenzioni stesse di tutela della salute e promozione dei diritti umani. Dal canto loro, gli Stati Uniti ritengono la legalizzazione nei suddetti stati compatibile con le Convenzioni, poiché non è stata cambiata la legge federale che perciò mantiene la proibizione.
Cambiare le Convenzioni? Oppure sfruttare la “flessibilità”? Il dilemma politico giuridico
Due sono le strade possibili: cambiare le Convenzioni prendendo in considerazione diverse opzioni (vedi sotto), oppure ritenere che i Trattati non vadano cambiati, sfruttando la “ sufficiente flessibilità” delle Convenzioni stesse. Questa seconda ipotesi è stata caldeggiata soprattutto dagli Stati Uniti ed è quella che si è per il momento affermata ad Ungass 2016. Gli estensori del paper scelgono la prima strada, confutando la linea della “flessibilità”.
In primo luogo, la flessibilità si presta a interpretazioni molto diverse: per l’Unione Europea, che per prima ha parlato di “sufficiente flessibilità”, questa permetterebbe la Riduzione del danno, la depenalizzazione del possesso e della coltivazione della cannabis ad uso personale, nonché lo sviluppo di alternative alla incarcerazione: ma non certo la regolamentazione della cannabis, che per la Ue è al di fuori dei Trattati. Al contrario per gli Stati Uniti, la “sufficiente flessibilità” coprirebbe anche la regolamentazione della cannabis. Infine il presidente dello Incb, Werner Sipp, in un discorso alla Cnd del marzo 2016, ha dichiarato che la flessibilità può permettere di non incarcerare gli autori di reati minori di droga, ma non permette di regolare legalmente il mercato della cannabis per usi non medici.
L’obiezione politica più importante riguarda l’impatto della parola d’ordine “flessibilità” sui paesi tough on drugs, fra cui la Cina e la Russia: questi paesi potrebbero avvalersi dell’art.39 della Convenzione Unica che “non preclude agli stati membri di adottare misure di controllo più strette e severe di quelle presenti nella Convenzione”. In altri termini, la “sufficiente flessibilità” potrebbe dare nuovo impulso a questi paesi per continuare coi trattamenti forzati e con l’applicazione della pena di morte, tanto per fare alcuni esempi.
Ancora, il termine flessibilità potrebbe essere molto diversamente interpretato a seconda dell’importanza attribuita a livello nazionale al sistema legale: i paesi che rimangono più aderenti al sistema legale (internazionale), come l’Olanda ad esempio, sono portati a seguire la lettera normativa e dunque a escludere la scelta nazionale di legalizzare la cannabis per ottemperare al dettato delle Convenzioni Internazionali.
Le quattro vie per cambiare le Convenzioni
- Riforma dei trattati che interessa tutti gli stati membri e che comporta l’unanimità
E’ ovviamente la via più difficile, perché l’emendamento diventa valido solo se nessun stato fa obiezione nel termine di 18 mesi. Nel caso di (probabili) obiezioni, lo Ecosoc può ancora decidere di approvarlo con esenzione degli stati che si sono opposti. Oppure lo Ecosoc può decidere di indire una Conferenza di tutti gli stati membri (Cop) per valutare l’emendamento. E’ da notare che la cannabis è presente in tutte e tre le Convenzioni, dunque tutte andrebbero emendate. Secondo la Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969 (Vclt), “l’accordo su un emendamento non vincola alcun Stato che ha firmato un trattato a sottoscrivere anche l’emendamento”. In altre parole, gli stati possono attenersi alle vecchie norme, se non condividono gli emendamenti. In realtà, sarebbe importante ammodernare tutte le procedure previste dalle Convenzioni, ad esempio: inserendo un meccanismo periodico di revisione; migliorando le procedure di classificazione delle sostanze, sì da assicurare un miglior approvvigionamento delle sostanze ad uso medico; riconoscendo l’uso tradizionale, religioso, non problematico delle sostanze secondo un approccio più tollerante.
- Riforma dei trattati che si applica a tutti i firmatari, che richiede la maggioranza
In questa sezione rientra la riclassificazione della cannabis o la sua uscita dalle tabelle. La nuova classificazione (o eliminazione dalle tabelle) è proposta dalla Oms e approvata dalla Cnd. La decisione è a maggioranza. L’approvazione della Cnd non è semplice, se si considera che la declassificazione del dronabinolo (o Thc sintetico)è già stata proposta diverse volte dalla Oms, ma sempre respinta dalla Cnd. Inoltre – aggiungono gli autori- il processo è complicato dal fatto che la cannabis è compresa sia nella Convenzione del 1961, che del 1971, che del 1988, dunque “la riclassificazione o l’uscita della cannabis dalle tabelle può non essere sufficiente per permettere una completa regolamentazione dei mercati”.
- Riforma dei trattati che si applica a un gruppo di stati (modifica inter se)
La Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati (Vclt) del 1969 (già citata) permette di modificare i trattati con accordi solo fra alcune parti, con una formula legale, peraltro poco praticata, che è una via di mezzo fra la denuncia selettiva e la riserva collettiva. In specifico, l’art.41 recita che “due o più parti possono concludere un accordo solo fra di loro per modificare un trattato”, a condizione che “non influisca sui diritti delle altre parti sotto il trattato..e non sia incompatibile con l’esecuzione dell’oggetto e dello scopo del trattato nella sua interezza”. La ratio della norma è di conciliare la salvaguardia della stabilità dei trattati con la possibilità di cambiamenti, evitando conflitti. Nel caso della cannabis, significa che un gruppo di paesi di orientamento simile (like-minded), ad esempio Uruguay e Canada, potrebbero scegliere la strada di firmare un accordo valido solo fra di loro, modificando o annullando le norme di controllo previste nelle Convenzioni per la cannabis. Si osserva che ci sono pochi se non nulli esempi dell’uso di questa norma inter se nella storia dei trattati internazionali. Tuttavia, questa norma eccezionale è stata pensata come mezzo per rinforzare i trattati: laddove, come nel caso delle droghe, i trattati sono antiquati, la modifica inter se può rafforzare il regime dimostrando che ci sono possibilità di modernizzazione.
- Riforma dei trattati che si applica ai singoli stati (ritiro dai trattati, denuncia selettiva, denuncia seguita da ri-accesso con riserva)
Ritiro dai trattati: in teoria si può fare, ma ci sono buone ragioni per rimanere nel sistema di controllo internazionale. In primo luogo, il sistema assicura anche l’approvvigionamento di sostanze per l’uso medico. In secondo luogo, per i paesi che ricevono aiuti allo sviluppo o benefici simili, la denuncia potrebbe comportare sanzioni economiche. Inoltre, l’adesione alle tre Convenzioni è condizione per un numero di accordi di commercio preferenziali o per l’accesso all’Unione Europea. Gli Usa mantengono ancora il proprio meccanismo della certificazione antidroga e la denuncia da parte di un paese porterebbe alla sua decertificazione. Dunque l’uscita dalle Convenzioni può avere serie conseguenze, specie per i paesi più poveri e con minor potere.
Denuncia selettiva: anche questa prevista dalla Vclt del 1969, è in realtà una rarità. Sembra più utile e legalmente sostenibile la via della denuncia con riaccesso con riserva, che ha gli stessi effetti.
Denuncia seguita da riaccesso con riserva: Si basa sulla possibilità data agli stati di aderire ma con alcune riserve o “dichiarazioni interpretative”. Moltissimi stati hanno a suo tempo aderito con qualche riserva. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno firmato il trattato del 1988 con una ampia riserva “su qualsiasi eventuale legislazione o altra azione proibita dalla Costituzione degli Stati Uniti”.
La denuncia seguita da riaccesso con riserva è stata la procedura perseguita dalla Bolivia per la foglia di coca, nel 2011. Dopo aver tentato, senza successo, la via della modifica delle Convenzioni da applicarsi a tutti gli stati membri, la Bolivia è uscita dalle Convenzioni, per poi firmarle di nuovo, ma con la riserva di permettere l’uso tradizionale della foglia di coca nel proprio paese. La Bolivia è uscita dalla Convenzione Unica nel gennaio 2012. Ben quindici paesi, inclusi tutti quelli del G8, obiettarono formalmente al riaccesso con riserva della Bolivia. Ma poiché non si raggiunse il quorum di paesi contrari per bloccare il riaccesso (62), all’inizio del 2013 la Bolivia fu riaccolta.
Gli estensori del paper sono decisi nel ritenere che la regolazione legale dei mercati della cannabis costituisca una violazione delle Convenzioni e dunque ritengono che gli Stati non dovrebbero sostenere il contrario (come l’Uruguay e gli Stati Uniti). Piuttosto, a loro avviso, i paesi legalizzatori dovrebbero formalmente annunciare di trovarsi in una situazione di non-compliance, sostenendo le ragioni delle riforme nazionali e illustrando la cornice degli altri trattati internazionali cui le loro riforme si ispirano (ad es. l’Uruguay si appella agli obblighi generali e preponderanti riguardanti i diritti umani, che hanno la precedenza sulle norme riguardanti le droghe). La dichiarazione formale di non-compliance dovrebbe rappresentare una tappa intermedia verso la risoluzione del conflitto con la riforma delle Convenzioni.
Quali indicazioni nell’attuale stato di transizione?
E’ importante cominciare a discutere la questione, invece di ignorarla, e il ruolo dei paesi riformatori è vitale. Il confronto può essere incoraggiato in diversi modi:
- proporre un gruppo consultivo di esperti (expert advisory group) che esplori le tensioni fra le innovazioni a livello nazionale e le Convenzioni.
- Avviare procedure formali di riforma dei trattati (anche se all’inizio non avranno successo, servono a far avanzare la consapevolezza che i trattati vanno modernizzati).
- Promuovere conferenze intergovernative fra paesi a simile orientamento riformatore per discutere la questione e magari preparare risoluzioni da sottoporre alla Cnd.
Appunti e considerazioni a caldo di chi ha partecipato al side event
Il lavoro presentato a New York, qui illustrato nel dettaglio, è approfondito e esauriente. Ovviamente, va discusso a fondo, in primo luogo fra noi delle Ong riformatrici. Mi limito ad alcune notazioni, segnalando anche alcune difficoltà e contraddizioni:
- Come si è visto a New York, c’è una divaricazione politica sempre più profonda fra la pattuglia di paesi tough on drugs e quella dei paesi riformatori, e il punto di maggiore divaricazione riguarda la questione cannabis. Gli estensori del paper colgono nel segno quando denunciano che la “flessibilità” delle Convenzioni può essere un’arma pericolosa nelle mani dei tough on drugs, che possono avere ancora più mano libera nella repressione (vedi sopra). Questa obiezione, squisitamente politica, non decadrebbe qualora si procedesse a una riforma delle Convenzioni valida solo per un gruppo di stati riformatori. Anzi, gli emendamenti alle Convenzioni validi solo per alcuni paesi e rifiutati da altri non farebbero che “irrigidire” simbolicamente il divario.
- Quale può essere l’effetto sul controllo delle altre sostanze dell’uscita della sola cannabis dalle Convenzioni? Non si tratterebbe più di scelte di politiche più avanzate per la cannabis, ma di vere e proprie differenze normative di regime. Come evitare il rischio di enfatizzare il fattore farmacologico delle sostanze (mite per la cannabis, pesante per le altre), a scapito degli altri fattori di set e setting, altrettanto importanti per spiegare i meccanismi di controllo/diminuito controllo, di maggiore/minore rischio nel consumo?
- Va a mio parere approfondito il rapporto fra diritto internazionale e diritto nazionale. Dallo studio sembra emergere un’interpretazione del delicato rapporto fra i due diritti, che di fatto sottomette il diritto nazionale a quello internazionale, con una rigida osservanza delle norme internazionali, pena il giudizio di non compliance. Ma va considerato che in molti ordinamenti, il nostro compreso, il diritto nazionale ha la precedenza su quello internazionale. Per la buona ragione, dal mio punto di vista, che il primo ha un fondamento democratico che il secondo non ha o non ha allo stesso livello. Questa supremazia si esprime anche nei margini di giudizio che sono lasciati ai singoli stati nell’interpretazione delle norme internazionali. Infatti lo INCB ha sì il compito di sorvegliare l’adesione degli stati alle convenzioni, ma non ha, non a caso direi, strumenti legali per imporre il suo giudizio. Si ricordi che nel 2003 il governo britannico rispose con durezza allo INCB che aveva lamentato la decisione di declassificare la cannabis in Uk. Ancora prima, in Italia, all’indomani del referendum del 1993 che aveva depenalizzato l’uso personale di tutte le droghe, una delegazione dello INCB si recò al Ministero di Giustizia, denunciando che il testo uscito dal referendum era in contrasto con le Convenzioni: i rappresentanti del Ministero risposero rivendicando una diversa interpretazione delle Convenzioni stesse. Dunque, la decisione dell’Uruguay di sostenere la conciliabilità della regolamentazione dei mercati della cannabis con le Convenzioni ha un suo fondamento, politico ma forse anche giuridico. Tuttavia comprendo la preoccupazione degli estensori che la “flessibilità” nel campo delle droghe possa indebolire altri campi del diritto internazionale: che peraltro in questo momento sono utilizzati per “riconciliare” la politica antidroga con la machinery Onu sui diritti umani e lo sviluppo dei popoli. Si veda ad esempio il tentativo di inquadrare e “misurare” le politiche antidroga con gli Obiettivi Onu dello Sviluppo Sostenibile (argomento oggetto di un altro importante side-event). Temo però che la questione vada affrontata più in generale, senza “irrigidire” l’ortodossia dell’interpretazione delle Convenzioni. In altri termini: come proporre una lettura dei trattati internazionali che ne salvaguardi la “flessibilità”, indispensabile poiché si devono applicare a contesti e culture così diversi nel mondo?
- Il paper non prende neppure in considerazione l’ipotesi di un progressivo “deperimento” delle Convenzioni e di un “rimpatrio” delle politiche delle droghe. Eppure bisogna discuterne, perché il (difficile) processo di modernizzazione proposto ha come primo risultato il loro rafforzamento. Domanda (non retorica): abbiamo ancora bisogno di una legge penale internazionale per le droghe?