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ROMA – Si chiama Flavio Sidagni, ha 55 anni e chiede aiuto. Lo fa scrivendo a Repubblica dalla prigione di Atyrau, in Kazakistan, dove si trova rinchiuso da sette mesi. Nella lettera (pubblicata il 16 novembre) racconta la sua storia, l’ha scritta come sms a sua cugina Simona Cutti, da un telefonino che si è procurato in cella, aiutato dagli uomini che lavorano per lui all’Agip, dove Sidagni dirigeva da dieci anni il reparto finanziario.

“Mi chiamo Favio Sidagni e lavoro per l’Eni da 30 anni. Negli ultimi 10 ho lavorato in Kazakistan come manager del dipartimento Finanza e Controllo dei 2 consorzi Kpo e Agip Kco. Il 20 Aprile scorso l’autorità di polizia kazaka ha predisposto una perquisizione forzata del mio appartamento rinvenendo sostanze stupefacenti leggere che detenevo per uso personale”. Sidagni è stato condannato a sei anni nel secondo grado di giudizio, da scontare nel carcere di massima sicurezza di Semey. Il capo d’accusa è traffico internazionale, spaccio e induzione all’uso di droghe. “Sono disperato” ci dice quando riusciamo a contattarlo in prigione. “Fra poco sarò trasferito in un carcere dal quale non uscirò vivo”. Dietro la sua voce si sentono persone parlare in un’altra lingua. “Sono il solo straniero qui, e per loro sono la gallina dalle uova d’oro. Qualsiasi cosa ha un prezzo, e al momento è un bene che sia così”.

La polizia è arrivata a casa sua il 20 aprile. Sidagni era in compagnia di alcuni amici, la
moglie, Irina, kazaka, era in un’altra stanza e il figlio di lei, 6 anni, non c’era. “Sono entrati e hanno cominciato a cercare, finché hanno trovato 120 grammi di hashish” racconta Paolo Gorlani, il marito della cugina di Sidagni che vive a Crema, e che dal momento dell’arresto sta provando a scalfire un muro di gomma giudiziario che continua a rimbalzarlo fuori. “Flavio non ha fatto in tempo a capire cosa volessero, non ha fatto in tempo a chiamare un avvocato, non ha fatto in tempo a capire cosa dicessero. L’hanno preso subito, e i suoi diritti gliel’hanno letti dopo, senza traduttore, compreso quello di poter rifiutare l’ispezione”.

La versione la conferma anche Sidagni. Con un’eco nel telefono che rende reale la distanza con il Kazakistan. “Stavamo fumando con alcuni amici a casa mia”, spiega. “Quando hanno suonato non ho guardato nello spioncino, non potevo mai immaginare una cosa del genere. Ora non faccio altro che pensare a quel momento. Perché avrei potuto rifiutare la perquisizione, era un mio diritto, ma me l’hanno detto dopo. Se avessi capito, se avessi saputo, se avessi compreso le parole. Ma non l’ho fatto. E adesso è tardi. Non ci sono vie d’uscita”.

Il 20 aprile il manager dell’Eni è stato portato in un commissariato e poi messo in prigione. La legge kazaka permette la precarcerazione in attesa di giudizio. “Sia nel processo di prima istanza che in appello” continua Sidagni, “sono stato condannato a 6 anni di carcere a regime duro. Durante l’iter giudiziario sono stato supportato dall’Eni, dall’ambasciata italiana e in particolare dagli amici e dai colleghi kazaki di Kpo e Agip Kco”. Nella sentenza gli sono state riconosciute tutte le attenuanti, il fatto di essere incensurato tra le prime. Il pm aveva chiesto 10-15 anni, il massimo della pena, è stato condannato a 6 per cessione di droga.

“I colleghi kazaki si sono mobilitati in mio aiuto. In più di 150 hanno scritto alle autorità giudiziarie locali due petizioni in mio favore. Mi hanno perfino trovato un avvocato noto in Kazakistan. Ma il processo è andato avanti senza fermarsi. Mi fidavo dell’avvocato, ora non riesco più a fidarmi. Non capisco bene la lingua, non capisco i toni. Dice che bisogna aspettare l’ultimo grado di giudizio, davanti alla Corte Suprema, tra almeno 4 mesi. E’ un tempo lunghissimo ma in prigione a Semey mi ci porteranno prima, e allora non potrò più parlare con nessuno. Altro che telefono. E’ una prigione di massima sicurezza, regime duro, che si trova lontano da qui, perfino arrivarci è complicato. Una volta che sei lì dentro non esisti più per il mondo di fuori. Questa è l’ultima possibilità che ho di parlare con il mio Paese. Ho sbagliato, ma non sono un trafficante. Ora ho paura”.

Gli ospiti di Sidagni che erano presenti al momento dell’arresto, hanno tutti firmato una deposizione scritta in cui affermano di non aver mai acquistato droga da lui, né di essere stati indotti a consumarla. “La sentenza è scioccante” spiega Paolo Gorlani. “Flavio ci aveva detto di non andare, che del caso se ne occupava quest’avvocato kazako. Ma ora sta male. Dopo sette mesi è stanco, depresso, parla di suicidio. Non ci sono vie di uscita da questa storia e il tempo che resta è poco”.

L’estradizione è impossibile per la mancanza di trattati bilaterali tra l’Italia e il Kazakistan, che non ha aderito neanche alla convenzione di Strasburgo sul trasferimento dei condannati. Ora l’unica possibilità sarebbe l’espulsione. Ma la legge kazaka è ferma, tanto quanto le prigioni statali sovrapopolate e in condizioni precarie. “Il governo parlava di un’amnistia per i reati meno gravi, proprio per lo stato in cui versano le carceri. Ma se Flavio viene trasferito in uno di massima sicurezza non sarà più possibile fare nulla” continua Gorlani. E Sidagni dalla prigione: “L’avvocato che mi ha affiancato come consulente la società per la quale lavoro è americano, non è un penalista e non può intervenire nel processo. Rivolgo un disperato appello all’Eni, all’Ambasciata italiana e alle autorità kazake in attesa che il mio caso venga analizzato dalla Corte Suprema di giustizia kazaka. Chiedo all’Eni e all’ambasciata di continuare a sostenermi, alle autorità kazake, in vista del summit Ocse (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) che si terrà a breve ad Astana, chiedo una sentenza giusta e umanitaria”.

E’ stata la lettera a Repubblica a mettere al corrente la madre ottantenne della sorte di suo figlio. “E’ sotto shock” spiega Gorlani, “ha paura di morire senza vederlo più”. E la situazione sta assumendo ombre preoccupanti. “Ora teme per la sua vita. In prigione l’hanno picchiato, è considerato una fonte di soldi. Divide la sua cella con gente che si buca. Gli arriva la droga, non so come facciano, ora Flavio è al punto limite”. Sidagni è anche malato, ha una neoplasia al collo per la quale sarebbe venuto in Italia se non ci fosse stata la nube del vulcano a impedirglielo. “Non faccio che ripensare alle coincidenze, agli errori, ai miei errori”, spiega prima che cada definitivamente la linea. “Mi trovavo bene qui, gli amici, la gente, il lavoro, mia moglie. Ma ora l’idea di morire lontano dall’Italia è un incubo”.

Con una percentuale religiosa del 70 per cento di musulmani, 25 per cento di cristiani e 5 per cento di buddisti, il Kazakistan è una dittatura fortemente personalistica, creata e guidata da Nursultan Nazarbayev che ha poteri esecutivi, legislativi e giudiziari diretti. Indipendente dall’Unione Sovietica dal 16 dicembre 1991, lo Stato è stato attaccato delle organizzazioni dei diritti umani proprio per le condizioni delle sue carceri. Due prigioni, Öskemen e Semey, sono le più antiche e risalgono ai tempi degli zar. Le condizioni di salute sono pessime, il savranumero dei detenuti dipende dall’aumento di criminalità registrato sotto il regime del presidente Nazarbayev e dall’aumento di sentenze di condanna.

Piantagioni di marjiuana e oppio sono presenti in diverse parti del Kazakistan. Prima che cessasse la produzione legale nel ’91, le piantagioni del Shymkent erano l’unica risorsa sovietica per la produzione di medicinali oppiacei. Cannabis e oppio crescono soprattutto nella Chu Valley, al centro sud dello Stato (circa 138 mila ettari di cannabis e una vasta aerea di papaveri da oppio). Il programma governativo del Kazakistan contro il narcotraffico è cominciato, non senza difficoltà di attuazione, nel 1993.