Sedici anni. Napoli. E’ finito in manette con 10 euro in tasca: aveva venduto uno spinello a un amichetto. Diciannove anni. Roma. Due tizi si sono fatti un giro in galera: coltivavano, nel diroccato bagno di casa, tre piantine di marijuana a testa. Sono gli ultimi casi di piccolo spaccio da pochi euro. Con tanto di sirene, polizia, giudice, prigione e soldi spesi.
Tre anonimi pizzicati proprio nelle ore in cui Roberto Saviano violava su “l’Espresso” uno dei più cristallizzati tabù made in Italy. E proponeva di legalizzare le droghe leggere per sottrarre miliardi, armi e potere alle mafie. Un grido salito dritto da Gomorra che ha incassato subito l’appoggio di luminari della medicina come Umberto Veronesi, ma che ha anche risvegliato – come tutte le volte – i fantasmi dentro milioni di italiani.
Già. Perché in Italia lo spinello è segreto. Si fa ma non si dice. Guai. Sempre più gente lo fuma. Mamme e papà. Figli e nipoti. Poi mamma sgrida il figlio. E il figlio ruba il fumo a mamma. Ma nessuno lo dice. E così per l’italiano medio vale ancora la regola: canna uguale droga. Pochi sanno che non è più così. E che nel nostro Paese lo spinello è un rito che coinvolge ormai 4 milioni di italiani. Avvocati, medici, notai. Idraulici, camerieri, disoccupati. Studenti e sfaccendati di ogni età e foggia. Sono il popolo radiografato dall’ultimo rapporto Onu, che ha spiegato come l’Italia dello spread alle stelle, in Europa un record ce l’ha: siamo noi quelli che hanno consumato più cannabis nel 2011, ben il 14,5 per cento degli italiani. Di tutte le età. Dai 15 ai 65 anni.
E’ gente che non guadagna certo con la droga, come fa invece la camorra, ma è anche un esercito invisibile che non vuole dare troppo nell’occhio. Che non si dichiara. Che fa di nascosto, compra di nascosto e fuma di nascosto. «Capita un po’ quello che succedeva con i gay negli anni Ottanta, in Italia chi usa cannabis o marijuana ha ancora paura di dirlo. E così nel dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere prevale il fronte del no», spiega l’ex sottosegretario alla Giustizia, Franco Corleone, il primo a depositare alla Camera, già nel 1995, una proposta di legge per la canna libera, con 150 firme di deputati. Una norma che giace ancora lì. «Pochissimi lo ammettono, per cui sensibilizzare l’opinione pubblica diventa difficile». In realtà c’è di tutto nel carnet del fumatore medio.
C’è il ragazzino che fuma con i grandi in famiglia, quello che fa la doppia vita, quello che non lo dice nemmeno agli amici. Li accomuna un fatto. Rischiano per comprare la marijuana e finiscono così per alimentare la criminalità. Tutto per un pregiudizio. Eppure a fare due conti, fra consumo diretto (e quindi tasse che andrebbero allo Stato anziché alle cosche), e risparmio di tempo e denaro fra forze di polizia e carceri stracolme, la legalizzazione dello spinello sarebbe una boccata d’ossigeno anche per i nostri conti in rosso. A spanne, spiega Achille Saletti, presidente di Saman, la rete di comunità fondate da Mauro Rostagno, «porterebbe un introito di almeno un miliardo e mezzo l’anno». Una cifra da capogiro in tempi di spending review e tagli draconiani.
Stando a uno studio della Sapienza firmato da Marco Rossi, poi, si potrebbe far pure meglio: «In Italia il costo del proibizionismo è in media di circa 10 miliardi di euro l’anno», quantifica il docente. Di questi oltre il 50 per cento per la sola cannabis. Ecco che con norme fiscali simili ai tabacchi l’erario guadagnerebbe quasi 4 miliardi l’anno. Non senza regole. Perché, questo i pro-canne lo ammettono, ci sono pure i casi limite. Come Federico, 38 anni, milanese, di mestiere fa l’informatore farmaceutico. Con la valigetta di pelle in fila dal medico della mutua non s’è accorto che quello spinello tutto solo in auto o in veranda, che lo rimetteva al mondo, dice lui, era diventato un cappio: «Ogni santo giorno, rollavo in media otto o nove spinelli», racconta. Troppi. Così s’è presentato al consultorio di Milano e ha chiesto aiuto: «Noi trattiamo soprattutto cocaina, ma il 2 per cento dei casi riguarda la cannabis. Una cifra irrisoria, ma che mette a nudo un aspetto della questione che va tenuto in considerazione. In Italia pochissimi consumatori di droghe leggere ritengono pericoloso il loro comportamento, ma succede che a qualcuno sfugga di mano. Non per ragioni di dipendenza alla sostanza, come nel caso delle droghe pesanti, ma per problemi legati a depressione o disturbi della personalità che il soggetto aveva sottovalutato». Il bello è che, sul piano pratico, la colpa è proprio dell’ipocrisia italiana: «Di quei famosi 4 milioni di italiani che hanno fatto uso di canapa o marijuana, le statistiche dicono che meno dell’1 per cento lo ammette», spiega Saletti. Ecco perché anche chi, come lui, si schiera per lo spinello libero invoca «regole e controlli capillari del mercato».
Anche perché nel sistema-marijuana c’è un baco silenzioso che finora è stato sottovalutato: gli Ogm. «Da qualche anno molta della marijuana e cannabis che circola non ha più nulla a che vedere con le piantine che conoscevamo. Oggi gli esperti hanno individuato 115 specie Ogm. Senza un controllo serrato della coltivazione, non sappiamo cosa stiamo assumendo», aggiunge. Con qualche rischio, visto che in alcuni casi le versioni “mostruose” hanno effetti diversi dai progenitori naturali.
«La liberalizzazione porta dunque un vantaggio economico e contrasta la criminalità, ma deve avere dei paletti proprio come è stato per l’alcol, quando s’è vietata la produzione di liquori con gradazioni troppo alte». Ma l’Italia è ben lontana da questo traguardo. Addirittura il monito della Commissione globale per le politiche sulla droga, di cui fanno parte Kofi Annan e numerosi ex capi di Stato, che ha esortato – come Saviano – i governi a perseguire la via della legalizzazione delle droghe leggere perché «si indebolisca almeno la criminalità organizzata», in Italia rimane inascoltato.
Mentre la mafia si arricchisce, «ogni anno le segnalazioni ai prefetti sono circa 50 mila, il 68 per cento per gli spinelli. Vuol dire, dal 1990 a oggi, oltre un milione di italiani pizzicati», denuncia il Forumdroghe nel Libro bianco 2012. Per non parlare delle carceri che esplodono: «Il 38 per cento dei detenuti è dietro le sbarre per possesso di stupefacenti e, di questi, il 70 per cento per l’uso di cannabis e marijuana. Se si aggiungono i tossicodipendenti dentro per altri reati superiamo il 50 per cento della popolazione carceraria».
E così finisce come a Osoppo, una cittadina abbarbicata sulle montagne della Carnia, in Friuli, dove sta andando in scena un processo che ha dell’incredibile. L’imputato è il Rototom, il festival di musica reggae più famoso d’Europa. Il capo della locale Procura ha mandato alla sbarra Filippo Giunta, patron della manifestazione, che portava su quelle montagne 150 mila persone da tutta Europa. L’accusa? Il parco del Rivellino dove cantò Bob Marley e ballarono i miti del culto rasta va considerato, secondo i pm, un “locale pubblico”. E quel popolo reggae salito lassù per ascoltare i ritmi del tamburi, un branco di spacciatori “protetto”, appunto, dagli organizzatori del Rototom. Per ora l’unico effetto è stato che il festival s’è trasferito in Spagna, dove ha trovato sponsor e appoggio da governi locali e polizia. Decine di migliaia di giovani partono dall’Italia. Molti sono gli stessi che hanno partecipato alla “Milion Marijuana March” di Roma, che lo scorso anno ha coinvolto oltre 50 mila persone. In Italia la mente della marcia di protesta contro il “neoproibizionismo” è Alessandro Buccolieri. Gli amici lo chiamano Mefisto e lui sta già lavorando all’edizione 2013. Con una novità: basta parate, ci sarà un grande evento-concerto sullo stile del primo maggio e una passerella di vip e artisti di fama mondiale, che stanno già aderendo.
L’obiettivo: «Aprire davvero il dibattito sulla legalizzazione della cannabis in Italia: stop alla persecuzione dei consumatori, sì al diritto alla coltivazione di una specie, che è un patrimonio dell’umanità e uso terapeutico in tutto il Paese».Proprio come in Toscana, che non sembra nemmeno Italia. E’ stata la prima regione, un paio di mesi fa, ad autorizzare la cannabis contro il dolore. E la polemica è esplosa. E se è vero che fu l’ex ministro Livia Turco, già nel 2007, ad aprire quella strada, è anche vero che i pazienti che hanno chiesto di farne uso in altre regioni sono finiti stritolati dalla burocrazia. Liste di attesa interminabili, ordinazioni di farmaci all’estero con tempi biblici, iter stremanti. Tanto che mentre il professor Felicino Debernardi, primario dell’istituto anti-tumori di Candiolo, all’avanguardia nelle terapie antidolore, ha auspicato come Veronesi che l’Italia apra alla cannabis, le statistiche raccontano un Paese lontano anni luce da quel modello. Dove l’associazione Pic Pazienti Impazienti Canapa denuncia le sofferenze dei malati che, in altri Paesi della Ue, sono già trattati con la cannabis e qui non trovano ascolto.
E pensare che perfino un super-proibizionista bacchettone come Carlo Giovanardi, quello che da sottosegretario voleva rendere obbligatori i test antidroga per i conduttori Rai, è finito in contraddizione. Mentre inveiva contro canne e spinelli, il “suo” dipartimento per le Politiche antidroga pubblicava una Bibbia proibizionista che, dopo una ventina di capitoli a senso unico, doveva prendere atto che la marijuana era utile per la sclerosi multipla e le terapie chemio. Tutte cure che, se affrontate con farmaci chimichi, costerebbero circa 3.600 euro al mese per ogni paziente, mentre nei Paesi dove la coltivazione è consentita non superano i 250 euro ciascuno. E l’elenco potrebbe continuare. Con le contraddizioni tipiche del nostro sistema. Come la storia di Fabrizio, un malato di Chieti che aveva ottenuto il permesso di importare cannabis per fini terapeutici, ma non aveva i soldi per potersi pagare il Bedrocam, un farmaco a base di cannaboidi. E così ha deciso di coltivarseli. Ma è finito in carcere e ora rischia vent’anni.