La giornalista Marcela Turati (Messico 1974) da’ un consiglio a chi intende informare sul narcotraffico in un luogo in cui questi conflitti sono in atto. “La chiave non e’ dire che sei un giornalista, fino alla fine. Ma andare poi di corsa in aeroporto”. Perche’ coloro che lavorano sul terreno si trasformano in permanenti inviati di guerra. “Io credo che sia ancora peggio -aggiunge- perche’ oltre a testimonianza ti converte in un obiettivo. In questo ambito non si sa dove siano le trincee. Non sai se il Sindaco o il poliziotto con cui parli sia un trafficante”. La Turati fa un lavoro che e’ costato la vita, negli ultimi 6 anni, a 50 suoi colleghi. Ma, nonostante questo, parla con tanta passione del suo lavoro, al punto che si dimentica di fare la prima colazione. Per questo le facciamo alcune domande e la obblighiamo a mangiare un po’.
Turati, redattrice della rivista Proceso, e’ stata lei stessa per due volte una notizia negli ultimi giorni. Questo giovedi’ 13 la Nieman Foundation per il giornalismo di Harvard le ha assegnato il premio Louis Lyons per la coscienza e l’integrita’ nel giornalismo “grazie alla sua attivita’ per la formazione e la protezione dei giornalisti in Messico e come bandiera di chi rischia la vita per raccontare l’ondata di violenza”. Mentre nei primi giorni di dicembre, alla Feria Internacional de Guadalajara, ha presentato “Entres las cenizas”, un libro collettivo elaborato con altri giornalisti della “Red de Periodistas de a Pie”, di cui lei e’ fondatrice, e che riscrive, dal punto di vista delle vittime, la guerra contro i narcos dei sei anni di presidenza di Felipe Calderon.
“Quasi tutta la cronaca di questo periodo e’ stata in chiave di orrore”, racconta. “Pero’ abbiamo deciso di fissarci su quanti hanno sofferto, Non solo quelli che sono rimasti sdraiati sul pavimento, ma anche quelli che hanno opposto resistenza e sono riusciti a cambiare qualcosa con piccoli atti di solidarieta’ ripetuti nel tempo. Gente che ha deciso di uscire dalla paralisi e intervenire nella storia”. Nel testo scritto da Turati nel libro, di parla di desaparecidos. I molti che non sono tornati dalle loro famiglie, arrabbiati e orfani di autorita’, pressati da leggi e protocolli che li riguardano. In un altro capitolo, i protagonisti sono le donne superstiti di Juarez, che sono diventate esperte di riti funebri e floreali per rendere onore agli uomini che si sono battuti e confortare le vedove. “Gocce che sono un atto d’amore e indicano al Governo chi e’ da aiutare, dov’e’ e come farlo”.
Data la crudelta’. La scrittrice cita una massima forense: “Ora prego per i vivi”.
I movimenti dei cittadini possono fare pressione ma e’ necessario che ci sia lo Stato per avviare grandi cambiamenti. Cosa chiede al nuovo Governo di Pena Nieto? La giornalista e’ senza dubbi. “C’e’ da creare un sistema integrale di protezione delle vittime. Nonche’ depurare il sistema giudiziale, si’ da averlo forte e pieno di gente onesta che faccia indagini sui crimini. Se risulta non punito, il sicario rimane nell’inconscio collettivo delle famiglie colpite: i giovani lasciano la scuola, le donne devono lavorare il doppio e se con la loro forza residua chiedono giustizia, i bimbi crescono con una rabbia incontenibile. Le vittime devono essere assistite, psicologicamente e con l’educazione, ma soprattutto devono sapere che qualcuno paga per il crimine”.
Questi sono i suoi desideri. Ma e’ scettica. “Credo che la guerra continuera’, La violenza si e’ apparentemente normalizzata, a livelli altissimi. Ma, e credo che sia l’opinione anche di altri giornalisti, che non diminuiranno i crimini, ma solo che si parlera’ meno di essi. C’e’ gente che festeggia la vittoria di un partito con esperienza di governo. Ma questi partiti hanno anche molto esperienza nel controllo dei media. Negli Stati governati dal PRI, con senatori e deputati di questo partito, non ci saranno contrappesi. E questo mi fa paura”.
Ascoltando Turati si rimane ammirati della straordinaria vocazione di molti giornalisti per l’esercizio della loro professione in condizioni tanto terribili. “Ci sono giornalisti molto validi a cui le loro mogli chiedono che non vadano a prendere i propri figli a scuola, perche’ e’ rischioso. E sopportano il senso di colpa di essere pericolosi nella propria famiglia, lottando per passione e con la consapevolezza di poter essere causa di morte per i propri figli”. E anche se l’amore per la professione non si paga con la morte, quasi sempre si paga con un gran disagio psicologico. “E’ come suicidarsi e se c’e’ violenza nella propria citta’, ci si trasferisce in un’altra. Altri si trasformano in anime in pena, poiche’ tutti hanno qualche esperienza passata. Un collega ha fotografato 19 cadaveri in diversi luoghi di Juarez in otto ore. Come si fa a tornare a casa, dopo?”.
Per questo nella Red de Periodistas non solo si insegnano protocolli di sicurezza, ma ci si preoccupa di sviluppare una sorta di autocontrollo sulle emozioni. “A Veracruz hanno ucciso nove giornalisti” racconta Turati. “E i loro colleghi non dicevano: ‘Abbiamo bisogno di psicologi per terapie collettive’, ma ‘abbiamo paura di uscire di casa’”. Nei gruppi di lavoro, una delle strategie e’ di convincerli che non hanno colpe, per cui non si sentano cattive persone quando hanno attacchi di ira nel proprio ambito famigliare: “Perche’ molte delle loro reazioni sono frutto di uno stress postraumatico, come quelli dei soldati in un conflitto armato”.
Siamo terribilmente ottimisti e pensiamo che domani la violenza finira’. Che succede con questo? “I carnefici sono vittime”, riflette. “Ho fatto un servizio su dei sicari, e quasi tutti erano indisciplinati quando erano a scuola. Ed ho pensato: c’e’ una politica pubblica da creare. E’ gente schiava dell’impunita’, senza rispetto per la vita. Un uomo fu arrestato a Juarez, e suo figlio di nove anni ha spiegato: ‘Mio padre era dedito a tagliare teste’. Che cosa fare in questo caso?”. E conclude con la riflessione di un funzionario della giustizia che aveva esaminato 55 cadaveri torturati che erano stati estratti da un pozzo: “Prima pregavo per i morti, ora prego anche per i vivi”.
Narcoguerra in Messico. Il 'difficile' mestiere del giornalista
Articolo di Redazione
Articolo di Bernardo Marìn, edito sul quotidiano El Pais del 14/12/2012, traduzione a cura del Notiziario Droghe Aduc.