Per Ungass 2016, appena conclusa a New York, è tempo di non facili bilanci. Se ripercorriamo gli obiettivi e le aspettative del movimento internazionale delle Ong, è comprensibile un certo amaro in bocca. Il documento finale (outcome document) ripercorre in gran parte il modello declamatorio ideologico delle passate Assemblee Generali, senza passi avanti: ad esempio, si riconferma la fedeltà alle Convenzioni, senza prendere in considerazione alternative; nessun termine alla pena di morte per reati di droga e neppure richiesta di moratoria delle esecuzioni; nessuna indicazione per la decriminalizzazione del consumo personale, né per la riduzione del danno. Per di più, a sancire la volontà di chiudere subito i giochi, il documento è stato approvato addirittura prima dell’inizio del dibattito generale.
Eppure, appena finito il voto, è emersa a sorpresa la vera novità: un dibattito diretto e acceso su questioni chiave, con fronti contrapposti ben definiti, senza l’usuale linguaggio felpato della diplomazia. I paesi latino- americani promotori di questa Assemblea straordinaria (Colombia, Messico e Guatemala) hanno ripercorso le ragioni dell’insostenibilità (economica, politica, democratica) della war on drugs, ribadendo la necessità di un cambio di passo che allinei il controllo globale della droga al rispetto dei diritti umani. Ed è apparso chiaro dalle loro parole che la ricerca è a tutto campo, verso soluzioni anche al di fuori dei limiti delle Convenzioni (“ci sono altri strumenti in campo, la regolazione dei mercati della cannabis o della foglia di coca in Bolivia ne sono esempi” – ha detto Milton Romani, responsabile delle politiche antidroga dell’Uruguay. Siamo solo all’inizio di un percorso, ha concluso).
Dall’altro versante, il fronte dei “duri” ha argomentato in posizione nettamente difensiva. Così è stato per la pena di morte, rivendicata dall’Indonesia (a nome di altri paesi asiatici, africani, medio orientali) in quanto “scelta nazionale di politiche di giustizia”. Ancora più chiaro il cambio di registro sulla riduzione del danno. Un tempo ignorata o dismessa come “eresia antiproibizionista”, a New York la riduzione del danno è stata rappresentata dai tough on drugs come “l’approccio dei paesi occidentali, alternativo alla riduzione della domanda” (la riduzione della domanda è la nostra strategia, fatta di prevenzione e di risposta penale, non forzateci a scegliere la riduzione del danno – si è raccomandato il rappresentante di Singapore – a nome dei paesi asiatici).
L’approdo politico di Ungass 2016 l’ha riassunto il Segretario di Stato statunitense, William Brownfield: riformare le politiche all’interno della “flessibilità” delle Convenzioni, ridimensionare l’approccio penale, puntando sui reati violenti di traffico e tralasciando i reati minori non violenti e il consumo, cui si addice l’intervento sanitario, non la risposta carceraria (subito dopo Milton Romani ha convenuto, sposando il “riequilibrio” a favore dell’approccio di sanità pubblica).
Cambiare corso lasciando intatte le Convenzioni: è un compromesso accettabile? Per il momento, la “flessibilità” sembra l’unico strumento per tenere insieme i due fronti e lo stesso sistema di controllo Onu. Il rischio è di una divaricazione crescente fra i paesi, in seguito al “rimpatrio” delle politiche. Col vantaggio però di veder “deperire” le Convenzioni, nel loro (discutibile) carattere di prescrizione penale. Forse, solo il declino delle Convenzioni può aprire la strada alla loro possibile riforma, verso un impianto alternativo di promozione civile e umana.
Per noi Italiani, c’è anche altro di cui prendere nota: il discorso del ministro Orlando, prudente ma deciso sulla via del rinnovamento. Un cambio di passo via dal sentiero di Giovanardi e Serpelloni.