Il 16 dicembre abbiamo scritto su queste pagine del silenziamento della Commissione droghe dell’Onu relativo al rapporto del gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, un documento che aveva ricevuto l’ok da molti governi ma che il segretariato ha bloccato poco prima della sua presentazione in plenaria.
Se non fosse stato per centinaia di ONG che hanno denunciato al Segretario Generale Guterres la grave censura l’affair non sarebbe stato degno di menzione, invece si tratta di un drammatico resoconto che vale la pena approfondire.
Gli esperti dell’Onu esaminano le violazioni in tutto il mondo senza risparmiare paesi democratici, Italia compresa. La media mondiale di detenuti per “reati di droga” è del 21,65%, al 30 giugno 2021 da noi era del 35,91%! Il doppio della media europea (18%) e molto più di Messico (9,7%) USA (20%), Colombia (20,7%), Marocco (25%) Albania (26%), Russia (28,6%) e Algeria (34,5%). Il rapporto evidenzia che “Alcuni Stati sono andati oltre quanto è richiesto dai trattati sul controllo delle droghe in termini di criminalizzazione e sanzioni associate, mentre altri hanno dimostrato uno zelo eccessivo nell’applicare le previsioni di criminalizzazione”. Esplicita la denuncia sull’eccessiva presenza di migranti in carcere per “fatti di droga” nel nostro Paese: 33% al 30 giugno 2021.
Anche test antidroga e perquisizioni sono sotto accusa: “possono essere usati come modi per identificare i consumatori di droga o coloro che ne sono in possesso con lo scopo di arrestarli. Queste pratiche sono un netto allontanamento dal requisito della causa probabile per le perquisizioni legali e ledono considerevolmente il diritto umano alla sicurezza della persona.” La decisione su chi deve essere “testato” o perquisito per il possesso di droga può essere “altamente soggettiva, spesso basata sull’aspetto fisico di una persona, il sesso, l’età, la razza, l’etnia o lo status di migrante o di sex workers”. Col tempo sul profiling da parte delle forze dell’ordine si è finalmente creata maggiore consapevolezza, in particolare negli USA dove le riforme sulla cannabis hanno tra i motivi principali la lotta alle discriminazioni verso le minoranze afroamericane e latinos.
L’articolo 103 del Testo Unico sulle droghe italiano permette la perquisizione anche in assenza di un assenso del magistrato. Uno strumento che permette la “pesca a strascico” nelle strade che fa entrare annualmente nel circuito penale migliaia di persone; altrettante finiscono in quello non meno odioso e stigmatizzante delle segnalazioni al Prefetto. Una volta entrati è molto difficile uscirne: basta la detenzione di una quantità poco superiore a quella considerata per uso personale e la presenza di altri elementi indiziari in casa come una bilancia (da cucina o di precisione spesso è indifferente) e di materiale per il confezionamento (reperibili nei cassetti di ogni cucina) e un po’ di contanti in casa, per finire denunciati per spaccio. Nei fatti si tratta di un’inversione dell’onere della prova che costringe l’accusato a dover dimostrare il possesso per l’uso personale, sgravando l’accusa dal portare in giudizio una qualsiasi prova (filmato, foto, intercettazione) che dimostri l’effettiva attività di spaccio. Così, 7 processi su 10 per droghe finiscono con una condanna, a differenza di quelli per i reati contro le persone o il patrimonio che rimangono fermi a un condannato ogni 10 processi (v. Urzi, 11° Libro bianco sulle droghe). Idem per chi entra nella spirale delle sanzioni amministrative che colpiscono quasi la metà dei segnalati.
La legge italiana va quindi contro i trattati sui diritti umani, oltre le convenzioni sulle droghe e viola le decisioni quadro europee – che prevedono pene massime da 1 a 3 anni e da 5 e 10 per i reati più gravi. Un motivo in più, se ce ne fosse bisogno, per riformarla.