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La strada l’hanno appena riasfaltata i cinesi. Un nuovo aspetto della cooperazione che non dà nell’occhio. Arrivano, fanno e vanno via. La striscia di asfalto corre veloce e, lasciata Mazar-i Sharif, nella provincia di Balkh, si insinua nella stretta gola di Tangi Tashkurgan, uno di quei passaggi maledetti tra le montagne, come più avanti l’alto passo di Salang, diventati famosi durante le varie guerre del paese. Mazar la ricca, granaio del paese: riso secco e tetti a cupola di paglia e fango che son piccoli gioielli architettonici. Poco più in là i tubi del gasdotto che arriva dal Tagikistan e una quantità impressionante di distributori di gas, nafta e benzina. Che qui costa anche un sesto di meno rispetto a Kabul. Ma, nascosta dietro le montagne o dietro le colline moreniche che accompagnano il paesaggio di Balkh, Samangan, Baghlan, lungo la strada che ci sta riportando a Kabul, c’è anche un’altra ricchezza. Il papavero. E, dunque, l’oppio. Non è così facile vederli i campi colorati dai fiori bianco/screziati da queste parti, nel nord del paese. Dove la guerra è lontana, la ricostruzione fa qualche passo avanti e il pericolo, semmai, viene dalle bande di malviventi che infestano anche la strada principale con asfalto cinese. Quando fa buio si gira malvolentieri.
Non è come nell’Helmand o nella provincia di Kandahar, terre maledette ad alta salinità e senza un filo d’acqua. Lì il papavero cresce bene anche in condizioni difficili e spesso i campi arrivano ai bordi della strada, da sempre. Nel nord, ai bordi delle strade, indovini riso e frumento, ortaggi e, tra poco, meloni. I campi di papavero non si vedono. Ma ci sono. Benché in queste aree la situazione della coltivazione dell’oppio sia stabile (Baghlan) o addirittura in forte decremento (Balkh e Samangan), l’insieme delle tre province contribuisce con 12 mila ettari alla produzione di oppio afgano, com’è noto la più estesa e in crescita del pianeta. Poco rispetto ai 70 mila ettari di Helmand, ma la stessa estensione della provincia di Kandahar, ad esempio. Dove la guerra, i talebani e un controllo del territorio in mano alla guerriglia e al narcotraffico la fanno da padroni nelle due aree più conflittive del paese.
In queste zone l’acqua non mancherebbe, ma le canalizzazioni sono state distrutte o non sono mai esistite e, nonostante la ricchezza dovuta ai commerci con i paesi confinanti, non tutti se la passano bene. Soprattutto i contadini. Nel distretto di Narin (Baghlan), il capo villaggio dell’omonima città ci conduce a vedere il colore dell’acqua che si beve quaggiù: marrone e inquinata. E qui va ancora bene, perché c’è il pozzo della scuola, dice Golan Rabbani, il capo villaggio, un signore austero ed elegante con un viso fiero e segnato da diverse cicatrici. Lo incontriamo all’ospedale distrettuale dove è attiva la Cooperazione italiana. Golan vorrebbe più impegno dalla comunità internazionale anche se ci è grato per quel che facciamo nell’ospedale dove l’Italia ha persino fatto arrivare un chirurgo dal Tajikistan, il dottor Maaruf Khan Waliof da Dushambe. Che nella piccola ma pulitissima sala operatoria ci mostra due calcoli grossi come noci che ha appena asportato. Nessuno viene volentieri a lavorare a Narin e gli italiani sono dovuti andare a pescare Maaruf fino a Dushambe per portarlo qui. Perché? Lo spiega Golan Rabbani: «In questa città se si esclude questo pozzo – dice appoggiato alla cisterna costruita tra la scuola e l’ospedale – non c’è nemmeno l’acqua potabile». Dietro alla sua snella figura brilla l’Hindukush e i suoi rigogliosi ghiacciai, ma qua a Narin non c’è un pozzo che, pescando in profondità, possa dare da bere acqua sana ai 25 mila abitanti della cittadina. 85 mila se si calcola il comprensorio. Niente acqua potabile significa malattie, infezioni e diarrea, specie adesso che comincia il caldo. In queste zona la vita è dura. Contadini poveri, spesso braccianti o mezzadri. Agricoltori senza terra che lavorano con aratri di legno e una coppia di buoi su pendii scoscesi. Muli per portare l’acqua a casa. I piedi lungo i sentieri delle capre per raggiungere la scuola o l’ospedale. L’oppio offre dunque una valida alternativa anche in queste province del Nord. Si vende bene sul mercato e a cifre ben più interessanti di riso e ceci. Per gli agricoltori afgani il papavero è una risorsa. Una pianta benedetta. La guerra contro i signori del narcotraffico le Nazioni Unite la fanno in tutto il paese: sul terreno e con un porta a porta dai contadini. Ma la guerra vera andrebbe fatta a Kabul, dove sorgono ogni giorno, in una città piena di senza casa, le magioni miliardarie del nuovo grande business afgano. Case con marmi e giardini curatissimi, le guardie armate alla porta, le jeep nel cortile.
Golalai Habib, responsabile della rivista afgana progressista Donia Zan (Mondo di donne), sostiene che la domanda sulla crescita delle coltivazioni andrebbe fatta direttamente al governo «dietro a cui si nascondono diversi trafficanti». C’è inoltre una responsabilità diretta verso le donne, dice: «Oltre il 50% dei braccianti nei campi di papavero. L’ho visto coi miei occhi». I maligni aggiungono che il narcotraffico si annida persino nei palazzi della presidenza. Protezioni, amicizie, favori. Occhi più o meno chiusi. Il risultato è sotto il naso di tutti.

«La comunità internazionale non riesce a fare programmi di lungo periodo. E quand’anche, in molti casi, si dimostrano un vero e proprio fallimento. La guerra all’oppio? E’ uno di questi fallimenti», dice Sultan Mohamad Awranq, un parlamentare della priovincia del Badakshan. «Il problema è che l’Onu ha scelto una politica di incentivi per chi smette la coltivazione dell’oppio. Il risultato? Chi non lo coltivava ora lo fa in modo che poi può riconvertire e ottenere gli incentivi», conclude Awranq. Paradossi. Nella sua provincia dice, «si coltiva più di prima», e in effetti nel Badakshan, nel nordest, ci sono ben 13 mila ettari a oppio il che fa di questa regione la provincia più produttiva dopo quella dell’Helmand. Anche se, secondo i dati dell’Undcp (l’agenzia Onu contro le droghe), la situazione segnala una forte decrescita delle coltivazioni, il che, per altro, non è in contrasto con quanto dice il parlamentare: si incrementa per poi prendere i sussidi per smettere.
Un gatto che si morde la coda. E riempie i magazzini dei kajakbar, i narcotrafficanti.
*Lettera22