A febbraio, è uscito il report della Commissione di inchiesta insediata dal governo svedese per valutare le politiche di contrasto al Covid. La Commissione, composta da otto esperti in discipline varie, ha giudicato le strategie di prevenzione adottate “fondamentalmente corrette” e “largamente vantaggiose” sul piano sociale. Com’è noto, la Svezia, sola in Europa, ha optato per non ricorrere a misure straordinarie di sospensione dei diritti di cittadinanza (vedi i lockdown generalizzati), affidandosi alle consuete politiche di sanità pubblica, fondate sull’adesione consapevole dei cittadini alle precauzioni necessarie (mascherine, distanziamento sociale, etc.). ll giudizio complessivo in chiaro non nasconde però alcuni punti oscuri: dalla poca chiarezza nella catena di comando, alle gravi carenze nell’assistenza agli anziani, al mancato ricorso a mirate chiusure nella prima fase dei contagi. Le cifre meritano attenzione: i 17.000 morti per Covid in Svezia sono molto superiori agli altri paesi nordici, ma inferiori rispetto alla maggior parte dei paesi europei che pure hanno adottato lockdown rigidi e prolungati. Nel 2020, la Svezia ha registrato il 7,7% di morti in più rispetto ai quattro anni precedenti, un aumento contenuto nel panorama europeo.
Nell’insieme, emerge un quadro che suscita (o dovrebbe suscitare) interesse, sia per la particolarità di quella esperienza, sia perché è uno dei pochi paesi che si è cimentato nella valutazione delle politiche: cercando di tenere presenti le molte dimensioni del governo pubblico della salute, compresi il benessere psicosociale della popolazione e la coesione della società svedese. Ebbene, non solo i media italiani hanno ignorato il rapporto, i principali giornali si sono gettati in una campagna di condanna senza appello del modello svedese (per di più sulla base di uno scritto di scarso valore scientifico erroneamente attribuito alla rivista Nature).
Il caso è stato citato al recente convegno del Dipartimento di Scienze Umane di università Milano Bicocca, circa la “polisemia di una pandemia”. Proprio in questa luce, del “segno” politico che questo episodio testimonia rispetto allo stato del dibattito pubblico durante e dopo la pandemia, è bene scavare, oltre la denuncia della scarsa qualità della nostra informazione. Al fondo, l’ignoranza circa il modello svedese suggerisce che l’emergenza pandemica non consente di “pensare”, prima ancora che praticare, alternative politiche. Nel 2020, il parere del CNB (Covid 19, salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale), pur giudicando ammissibili misure temporanee di sospensione di libertà democratiche, chiedeva che “il loro carattere di eccezionalità dovesse sempre essere presente nella comunicazione pubblica” a evitare il rischio che tali misure potessero essere un precedente sulla via di una “ordinaria” rottura della regola democratica. Ciò non è avvenuto. L’enfasi sulla salute ridotta alla componente biologica ha richiamato politiche “naturalmente” eccezionali, perdendo di vista i costi psicologici, economici, sociali delle misure messe in campo. La guerra al virus si è ovviamente conformata alla logica bellica del “o di qua o di là”, con progressive semplificazioni e schiacciamento di posizioni: salute/versus economia, solidarietà versus individualismo, scienza versus superstizione. Alla irrazionalità No Vax, si è contrapposta la “fede nella scienza” dei Sì Vax. I perplessi del Green Pass non hanno trovato spazio per discutere dei rischi di inaugurare uno strumento di biopolitica in un regime democratico, ma sono stati arruolati a forza fra i No Vax e come tali scomunicati. Così come oggi chi è restio a unirsi al coro “alle armi, alle armi”, rischia di essere annoverato nell’esercito di Putin. Fermiamoci, per favore. Se non c’è più spazio per concepire alternative, non c’è più spazio per la politica, non c’è più spazio per la democrazia.